venerdì 13 novembre 2020

I giganti della fede – la Monaca di Monza

Molte sono le strade che portano ai voti religiosi, cioè alla scelta di dedicare la propria vita alla Chiesa, e nessuna può dirsi più sicura di altre, dal momento che il “principale” non esiste e quindi non può inviare la sua chiamata a nessuno.

Vi è una strada, però, che può senza discussioni considerarsi la peggiore, ed è quella di chi è costretto alla vita religiosa dalle pressioni della famiglia, contro la propria volontà.

Il simbolo di questi poveretti può ben essere individuato nella figura della Monaca di Monza, il personaggio immortale creato da Alessandro Manzoni nei Promessi Sposi. Ed è proprio alla sua triste storia che è dedicato il post di oggi.

LUMEN


<< Era essa l’ultima figliuola del principe ***, un gran gentiluomo milanese, il quale poteva contarsi fra i più doviziosi della città. Ma il concetto indefinito ch’egli aveva del suo titolo gli faceva parere le sue sostanze appena sufficienti, scarse anzi a sostenerne il decoro; e tutte le sue cure erano rivolte a conservarle, almeno quali erano, unite in perpetuo, per quanto dipendeva da lui.

Quanti figliuoli egli s’avesse non appare chiaramente dalla storia; si rileva soltanto ch’egli aveva destinati al chiostro tutti i cadetti dell’uno e dell’altro sesso, per lasciare intatta la sostanza al primogenito, destinato a perpetuare la famiglia, a procreare cioè dei figliuoli, per tormentarsi e tormentarli nello stesso modo.

La nostra infelice stava ancora nascosta nel ventre della madre, che la sua condizione era irrevocabilmente stabilita. Rimaneva soltanto da decidersi s’ella sarebbe un monaco o una monaca; decisione per la quale faceva mestieri, non il suo assenso, ma la sua presenza.

Quando ella comparve, il principe suo padre, volendo darle un nome che risvegliasse immediatamente l’idea del chiostro, e che fosse stato portato da una santa di alti natali, la chiamò Gertrude. Bambole vestite da monaca furono i primi balocchi che le si posero fra le mani; poi immagini vestite da monaca, accompagnando il dono coll’ammonizione di tenerne ben conto, come di cosa preziosa, e con quell’interrogare affermativo: “bello eh?”

Quando il principe o la principessa o il principino, che solo dei maschi veniva allevato in casa, volevano lodare l’aspetto prosperoso della fanciullina, pareva che non trovassero modo d’esprimer bene la loro idea, se non colle parole: “che madre badessa!” Nessuno però le disse mai direttamente: tu devi farti monaca. Ella era un’idea sottintesa e toccata incidentemente in ogni discorso, che risguardasse i suoi destini futuri.

Se qualche volta la Gertrudina si lasciava andare a qualche atto un po’ tracotante e imperioso, al che la sua indole la portava assai facilmente, “tu sei una ragazzina”, le si diceva: “questi modi non ti si confanno: quando sarai la madre badessa, allora comanderai a bacchetta, farai alto e basso.”

Qualche altra volta il principe, riprendendola di certe maniere troppo libere e famigliari, alle quali pure ella trascorreva assai volentieri, “ehi! ehi!” le diceva: “non son vezzi da una tua pari: se vuoi che un giorno ti si porti il rispetto che ti si conviene, impara fin d’ora a star più in contegno: ricordati che tu devi essere in ogni cosa la prima del monastero: perchè il sangue si porta perchè il sangue si porta tutto dove si va.”

Tutte le parole di questo genere inducevano nel cervello della fanciullina l’idea implicita ch’ella aveva ad esser monaca: ma quelle che venivano dalla bocca del padre, facevano più effetto di tutte le altre insieme. Le maniere del principe erano abitualmente quelle d’un padrone austero, ma quando si trattava dello stato futuro dei suoi figli, dal suo volto e da ogni sua parola traspirava una immobilità di risoluzione, una ombrosa gelosia di comando, che imprimeva il sentimento di una necessità fatale.

A sei anni Gertrude fu collocata, per educazione e ancor più per istradamento alla vocazione impostale, nel monastero dove l’abbiamo veduta: e la scelta del luogo non fu senza disegno. Il buon conduttore delle due donne ha detto che il padre della signora era il primo in Monza: e accozzando questa qualsisia testimonianza con alcune altre indicazioni che l’anonimo lascia scappare sbadatamente qua e là, noi potremmo di leggieri asserire che egli fosse il feudatario di quel paese.

Comunque sia, egli vi godeva d’una grandissima autorità; e pensò che ivi meglio che altrove la sua figlia sarebbe trattata con quelle distinzioni e con quelle finezze che potessero più allettarla a scegliere quel monastero per sua perpetua dimora.

Nè s’ingannava: la badessa d’allora, e alcune altre monache faccendiere, che avevano, come suol dirsi, la mestola in mano, trovandosi avvolte in certe gare con un altro monastero, e con qualche famiglia del paese, furono molto liete d’acquistare un tanto appoggio; ricevettero con grande riconoscenza l’onore che veniva loro compartito, e corrisposero pienamente alle intenzioni che il principe aveva lasciate trasparire sul collocamento stabile della figliuola: intenzioni del resto assai consonanti al loro interesse.

Gertrude appena entrata nel monastero, fu chiamata per antonomasia la signorina; posto distinto alla mensa, nel dormitorio; la sua condotta proposta alle altre per esemplare; dolci e carezze senza fine, e condito con quella famigliarità un po’ riverente, che tanto adesca i fanciulli, quando la trovano in coloro che veggiono trattare gli altri fanciulli con un contegno abituale di superiorità.

Non che tutte le monache fossero congiurate a trarre la poverina nel laccio: molte ve ne aveva di semplici ed aliene da ogni intrigo, alle quali il pensiero di sagrificare una figlia a mire interessate avrebbe fatto ribrezzo; ma queste tutte attente alle loro occupazioni particolari, parte non si accorgevano bene di tutti quei maneggi, parte non discernevano quanto vi fosse di reo, parte si astenevano dal farvi sopra esame, parte tacevano per non fare scandali inutili.

Qualcuna anche, ricordandosi d’essere stata con simili arti condotta a quello di cui s’era pentita poi, sentiva compatimento della povera innocentina, e lo sfogava col farle carezze tenere e malinconiche sotto le quali ella era ben lunge dal sospettare che ci fosse mistero: e la faccenda camminava. Sarebbe forse camminata così fino alla fine, se Gertrude fosse stata la sola ragazza in quel monastero.

Ma tra le sue compagne di educazione ve n’erano alcune che sapevano d’essere destinate al matrimonio. Gertrudina, nodrita nelle idee della sua superiorità, parlava magnificamente dei suoi destini futuri di badessa, di principessa del monastero, voleva ad ogni conto esser per le altre un soggetto d’invidia; e vedeva con maraviglia e con dispetto, che alcune di quelle non ne sentivano punto.

Alle immagini maestose, ma circoscritte e fredde che può somministrare il primato in un monastero, contrapponevano elle le immagini varie e luccicanti di sposo, di conviti, di veglie, di ville, di tornei, di corteggi, di abiti, di carrozze. Queste immagini cagionarono nel cervello di Gertrude quel movimento, quel bollore che produrrebbe un gran paniere di fiori appena colti, collocato davanti ad un’arnia.

I parenti e le educatrici avevano coltivata e cresciuta in lei la vanità naturale, per farle parer buono il chiostro; ma quando questa passione fu stuzzicata da idee tanto più affini ad essa, si gettò ben tosto in quelle con un ardore ben più vivo e più spontaneo.

Per non restare al di sotto di quelle sue compagne, e per condiscendere nello stesso tempo al suo nuovo genio, rispondeva ella che, al far dei conti, nessuno le poteva porre il velo in capo senza il suo assenso, che anche ella poteva torre uno sposo, abitare un palazzo, godersi il mondo, e meglio di tutte loro; che lo poteva, pur che lo avesse voluto; che lo vorrebbe, che lo voleva: e lo voleva in fatti.

L’ idea della necessità del suo consenso, idea che fino allora era stata come inavvertita e rannicchiata in un angolo della sua mente, vi si svolse allora e si manifestò con tutta la sua importanza. Ella la chiamava ad ogni tratto in soccorso, per godersi più tranquillamente le immagini d’un avvenire gradito.

Dietro questa idea però ne compariva sempre infallibilmente un’altra: che quel consenso si trattava di negarlo al principe, il quale lo teneva già, o mostrava di tenerlo per dato; e a questa idea l’animo della figliuola era ben lontano dalla sicurezza che ostentavano le sue parole.

Si paragonava allora con le compagne, che erano ben altrimenti sicure, e provava per esse dolorosamente l’invidia che da principio aveva creduto di far loro provare. Invidiandole, le odiava; talvolta l’odio si esalava in dispetti, in isgarbatezze, in motti pungenti; talvolta la conformità delle inclinazioni e delle speranze lo sopiva, e faceva nascere una apparente e transitoria intrinsichezza.

Talvolta, volendo pure godersi intanto qualche cosa di reale, e di presente, si compiaceva delle preferenze che le venivano accordate, e faceva sentire alle altre quella sua superiorità; talvolta non potendo più tollerare la solitudine dei suoi timori e dei suoi desiderii, andava raumiliata in cerca di quelle, quasi ad implorare benevolenza, consigli, coraggio.

Tra queste deplorabili guerricciuole con sè e con altrui, aveva ella varcata la puerizia, e s’inoltrava in quella età così critica, nella quale par che entri nell’animo quasi una potenza misteriosa, che solleva, adorna, rinvigorisce tutte le inclinazioni, tutte le idee, e qualche volta le trasforma o le rivolge ad un corso impreveduto.

Ciò che Gertrude aveva fino allora più distintamente vagheggiato in quei sogni dell’avvenire, era lo splendore esterno e la pompa: un non so che di molle e di affettuoso che da prima v’era diffuso leggermente e come in nebbia, cominciò allora a svolgersi e a primeggiare nelle sue fantasie.

Si era ella fatto nella parte più riposta della mente come uno splendido ritiro: quivi rifuggiva dagli oggetti presenti, quivi accoglieva certi personaggi stranamente composti di confuse memorie della puerizia, di quel poco che ella poteva vedere del mondo esteriore, di ciò che aveva appreso nei colloquii colle compagne; si tratteneva con essi, parlava loro, e si rispondeva in loro nome; quivi dava comandi, e riceveva omaggi d’ogni genere.

Di tempo in tempo i pensieri della religione venivano a turbare quelle feste brillanti e faticose. Ma la religione, quale era stata insegnata alla nostra poveretta, e quale ella l’aveva ricevuta, non proscriveva l’orgoglio, anzi lo santificava e lo proponeva come un mezzo per ottenere una felicità terrena. Spogliata così della sua essenza, non era più la religione, ma una larva come le altre.

Negli intervalli in cui questa larva prendeva il primo posto e grandeggiava nella fantasia di Gertrude, l’infelice sopraffatta da terrori confusi, e compresa da una confusa idea di doveri, s’immaginava che la sua ripugnanza al chiostro, e la renitenza alle insinuazioni dei suoi maggiori nella scelta dello stato, fossero una colpa, e prometteva in cuor suo di espiarla, chiudendosi volontariamente nel chiostro.

Era legge che una giovane non potesse venire accettata monaca se prima non era stata esaminata da un ecclesiastico chiamato il vicario delle monache, o da qualche altro a ciò deputato, affinchè constasse ch’ella vi si conduceva di sua libera elezione: e questo esame non poteva aver luogo se non un anno dopo che ella avesse con una supplica in iscritto esposto a quel vicario il suo desiderio.

Quelle monache che avevano pigliato il tristo incarico di far che Gertrude si obbligasse per sempre colla minor possibile cognizione di ciò che faceva, colsero uno dei momenti che abbiam detto, per farle trascrivere e soscrivere una tale supplica. E a fine di indurla più facilmente a ciò, non mancarono di dirle e di ripeterle ciò che era vero, che quella finalmente era una mera formalità, la quale non poteva avere efficacia se non da altri atti posteriori che dipenderebbero dalla sua volontà.

Con tutto ciò la supplica non era forse ancor giunta al suo destino, che Gertrude s’era già pentita d’averla scritta. Si pentiva poi di quei pentimenti, passando così i giorni e i mesi in una incessante vicenda di voleri e di disvoleri.

Tenne lungo tempo nascosto alle compagne quel suo fatto, ora per timore di esporre alle contraddizioni una buona risoluzione, ora per vergogna di manifestare un marrone. Vinse finalmente il desiderio di sfogar l’animo e di accattar consiglio e coraggio. V’era un’altra legge, che a quell’esame della vocazione una giovane non fosse ricevuta se non dopo aver dimorato almeno un mese fuori del monastero dove era stata in educazione.

L’anno dall’invio della supplica era già quasi trascorso, e Gertrude era stata avvertita che fra poco ella verrebbe tolta dal monastero e condotta nella casa paterna per istarvi quel mese, e fare tutti i passi necessari al compimento dell’opera ch’ella aveva di fatto incominciata. Il principe e il resto della famiglia tenevano tutto ciò per certo, come se fosse già avvenuto; ma tali non erano più i conti della giovane: invece di fare gli altri passi, ella pensava al modo di tirare indietro il primo.

In tali strette si risolvè d’aprirsi con una delle sue compagne, la più franca e pronta sempre a dar consigli vigorosi. Questa suggerì a Gertrude d’informare per lettera il padre, come ella aveva mutato pensiero; giacchè non le bastava l’animo di cantargli a suo tempo sul viso un bravo: non voglio. E perchè i pareri gratuiti, in questo mondo son rari assai, la consigliera fece pagar questo a Gertrude con tante beffe sulla sua dappocaggine.

La lettera fu concertata fra tre o quattro confidenti, scritta di soppiatto, e fatta ricapitare per via di artifizii molto studiati. Gertrude stava con grande ansietà aspettando una risposta che non venne mai.

Se non che alcuni giorni dopo, la badessa, tiratala in disparte, con un contegno di reticenza, di disgusto e di compassione, le toccò un motto oscuro d’una gran collera del principe, e d’una scappata ch’ella doveva aver fatta, lasciandole però intendere che portandosi bene ella poteva sperare che tutto si dimenticherebbe. La giovinetta intese e non osò chiedere più in là. >>

ALESSANDRO MANZONI

9 commenti:

  1. Di pressioni, chi ha il potere, ne esercitava e ne esercita oggi ancora. Ma che bello vedere come la natura umana si ribelli a ogni tentativo di controllare la vita altrui. Ho amato Giampaolo Osio e ho approvato suor Virginia Maria di Leyva, la sua trasgressione, quello schiaffo ai prepotenti: "Quel lato del monastero era contiguo ad una casa abitata da un giovane, scellerato di professione, uno de tanti, che in què tempi, e co’ loro sgherri e con l’alleanza d’altri scellerati, potevano, fino a un certo segno, ridersi della forza pubblica e delle leggi. Egidio era il suo nome…”. Che piacere quel "ridersi" della forza pubblica e di leggi tanto inique. Ogni trasgressione è gustosa ma questa, forse, più di altre.

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    1. Caro Agostino, il Manzoni riporta più volte, come tipico di quei tempi, il fatto che le leggi erano spesso delle formule vuote, di cui i vari gruppi di potere si potevano fare beffe.

      Oggi le cose sembrano migliorate, perchè il potere giudiziario dello Stato è più efficiente e pervasivo.
      Ma forse è solo un gioco di specchi oppure il risultato di una maggiore ipocrisia.
      E' ben noto, infatti, il potere di elusione e di aggiramento di cui godono le elites, e per altro verso, l'ampio spazio di impunità in cui si muove la malavita organizzata.

      Io resto comunque ben lieto di vivere nei tempi moderni, con la giustizia imperfetta di oggi, che non nel seicento.

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  2. Scusa, Lumen, ma perché ci hai proposto questo lungo testo? Sono arrivato con fatica alla fine. Sì, così andavano le cose una volta, ma tanto tanto tempo fa. Oggi i tempi sono definitivamente cambiati, cose del genere non sono nemmeno più concepibili, visto fra l'altro che di monasteri non ce ne sono quasi più. Certo l'arte di raggirare qualcuno esiste sempre, ma in modi diversi. Direi che questo esempio non calza più. Come pure tutta la storia (don Abbondio pusillanime, il mancato matrimonio, don Rodrigo, i bravi ecc. ecc.). Ma a scuola si leggono ancora I promessi sposi in Italia? Mi sembra di sì. Poveri ragazzi (e ragazze). Dopo aver riletto la storia di Gertrude qui sopra mi è persino passata la voglia di rileggere - per l'ultima volta - questo romanzo. Che venticinque o trenta anni rilessi rapidamente e con gran piacere in tre o quattro giorni. Adesso trovo anche la lingua antiquata. Dice Vittorio Saltini - che pure apprezza in parte Manzoni - che bisognerebbe leggere solo o soprattutto opere di contemporanei (ma poi è fissato sui Russi dell'Ottocento, soprattutto Tolstoi e Cechov).
    Già, cosa leggere? Ormai tutti scrivono e siamo otto miliardi! Ma già Leopardi osservava che erano ormai più numerosi gli autori che i lettori!
    Certo è che la letteratura ha perso importanza. Una volta era un'importante fonte di informazioni, non solo di svago e divertimento. Non c'era quasi nient'altro oltre i libri.

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    1. << Sì, così andavano le cose una volta, ma tanto tanto tempo fa. >>

      E' vero, certi meccanismi, qui da noi, non si usano più.
      Ma sono sicuro che in certe parti del mondo, quelle ancora legate ad una società fortemente patriarcale (ce ne sono ancora parecchie) l'imposizione della scelta religiosa sia ancora una pratica comune.

      Inoltre, anche se qui da noi la pressione social-familiare ha perso il suo contenuto religioso, non vuol dire che non sia sopravvissuta in altre forme.
      La storia di Gertrude, in fondo, è quella di tutti quei ragazzi che sono stati costretti, per semplice capriccio altrui e senza una necessità economica, ad indirizzare la propria vita su una strada molto diversa dalle proprie aspirazioni.

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  3. Mi hai fatto tornare indietro ai tempi del liceo con questa lettura.
    Ma, visto che stiamo rispolverando Manzoni, non sarebbe il caso di riprendere anche Don Ferrante ?
    Penso che un parallelismo con la situazione odierna sarebbe interessante

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    1. Hai perfettamente ragione, ed infatti del mitico Don Ferrante avevo parlato proprio quest'estate con un post di agosto.
      Lo puoi trovare facilmente sfogliando l'archivio del blog (in alto a destra).

      P.S. - al capolavoro del Manzoni, che apprezzo moltissimo, ho dedicato parecchi post. Se vuoi te ne posso segnalare altri.

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  4. > chi è costretto alla vita religiosa dalle pressioni

    Da un punto di vista ecologico possiamo dire che fu un tentativo di contraccezione "collettiva", ovvero impedire che maschi e femmine altrimenti fertili procreassero?

    Un'altra ragione, per i livelli alti del clero e' che non ci fosse passaggio ereditario delle proprieta' del clero. L'imperatore cosi' aevva meno grane nel cercare di mantenere il proprio potere. Questo non riguardava le donne, in genere, data la linea maschile per l'ereditarieta'.
    Pero' rimaneva l'idea di persone tolte dal processo riproduttivo collettivo.

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  5. "Pero' rimaneva l'idea di persone tolte dal processo riproduttivo collettivo."

    Non so, non credo che questo fosse il calcolo. Nel caso della monaca di Monza si trattava di eliminare qualcuno dalla spartizione del patrimonio. Ma in molti casi la monacazione era una sistemazione: cosa dovevano fare tutte queste povere donne? Di mariti o promessi sposi manco l'ombra, mettiamole in convento!

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  6. Ritengo anch'io che la preoccupazione principale fosse quella di evitare delle noie ereditarie, e conservare integro il patrimonio familiare al primogenito.
    Questo valeva sicuramente per la nobiltà, che aveva anche un titolo indivisibie, ma penso che valesse, in molti casi, anche per la ricca borghesia.

    Aggiungerei un secondo motivo, ovvero quello di avere dei consanguinei e quindi degli alleati, nell'ambito della Chiesa (in genere nelle alte sfere), trattandosi di una istituzione all'epoca molto potente, la cui collaborazione risultava spesso fondamentale.

    Ritengo marginale invece, l'aspetto riproduttivo, in quanto ci pensavano già le calamità naturali e le guerre a ridurre periodicamente la popolazione in 'eccesso' (a volte anche troppo).

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