sabato 13 giugno 2020

Punti di vista – 19

UNIVERSITA’
Il perno su cui ruota (…) lo strangolamento dell’università [italiana] è il mito soffocante e ossessivo della «valutazione».
Per esser chiari: quando intrapresi la carriera universitaria (25 anni or sono) tutte le mie energie erano spese ad aumentare la conoscenza ricevuta (ricerca) e a trasmetterla agli studenti (didattica).
Oggi, invece, sarei chiamato a dedicare più della metà del mio tempo professionale a compilare questionari, schedari, certificazioni, accreditamenti, rendicontazioni, riesami, revisioni per mezzo dei quali un elefantiaco apparato burocratico, il cui unico scopo è giustificare la propria esistenza, pretenderebbe di valutare il mio operato in termini di efficienza produttiva.
Con l’inizio del nuovo millennio, la vita del professore è sprofondata in un universo kafkiano di parametri pseudo-oggettivi, mediane, soglie, rating, metriche, decaloghi, indicatori, «somministrati» da una pletora di organismi e protocolli (Anvur, Invalsi, Ava, Gev, Vqr, Asn) tramite i quali i burocrati del sapere vessano sistematicamente studenti e docenti, con l’unico risultato di spegnere in loro ogni autentico desiderio di conoscere, ogni libero impeto a sapere, ogni possibilità di fecondarsi reciprocamente nell’eterno e rinnovato mistero dell’insegnamento.
ANTONIO SCURATI


GUERRE DI RELIGIONE
Se l’Europa è stata insanguinata dalle guerre di religione, durante il Rinascimento, è stato perché, nello stesso territorio – per esempio in Germania e in Francia – c’erano cattolici e protestanti.
Due sette cristiane, ambedue devote a Gesù, dio d’amore, e tuttavia intente a scannarsi vicendevolmente con entusiasmo. 
Semplicemente perché i credenti si distinguevano tra “noi” e “loro”. 
E dopo anni in cui erano scorsi fiumi di sangue, ci fu forse una soluzione religiosa? Nient’affatto. 
Si ebbe una soluzione legale: la religione di un Paese era ufficialmente quella del suo sovrano, cuius regio eius religio (Pace di Augusta, 1555). E i cittadini non avevano che da conformarsi.
GIANNI PARDO


ITALIANI
Gli italiani sono tutti schierati. A distanza di così tanti anni, c’è tanta gente che ancora non riesce a dare per scontati i crimini fascisti, e ad ammettere i crimini commessi in nome del comunismo.
Gli italiani non amano la verità. Basta guardare la televisione: un esponente del governo cita dei dati, uno dell’opposizione ne cita altri, e il giornalista il più delle volte si limita a passare il microfono.
Nei giornali, invece, c’è un proliferare di verità contrastanti senza nessun accordo nemmeno sui dati più innegabili. Quante volte abbiamo letto che la criminalità è in aumento, anzi in calo ? (…)
Si tratta solo di scegliere cosa leggere, e poi fidarsi ciecamente.
Viviamo in un paese diviso in gruppi che si parlano e non si capiscono. Un paese in cui le verità storiche, giudiziarie, statistiche, non interessano a nessuno. Interessano solo le opinioni.
GAIA BARACETTI


CRESCITA E AMBIENTE
E’ del tutto chiaro che non esiste alcuna possibilità di conciliare la crescita così come essa è intesa oggi, cioè mero aumento di produzione di merci e servizi a fine di profitto privato e la protezione dell’ambiente.
Sono due cose antitetiche che vanamente vengono spacciate, specie dall’Europa dell’oligarchia, come entrambe possibili: le campagne ambientali lanciate dall’altro con regie mediatiche sono funzionali solo a sostituzioni tecnologiche ormai necessarie a tenere vivo un mercato ormai saturo.
I risultati vantati negli ultimi due decenni da questi ambientalisti istituzionali e globali sono esclusivamente dovuti al fatto che una grande parte di produzione è stata delocalizzata in Asia, trasferendo altrove le emissioni.
Ma questo altrove è disgraziatamente sullo stesso pianeta e dunque coinvolge tutti.
SIMPLICISSIMUS


CIRCOLAZIONE STRADALE
La proposta di riduzione del numero di veicoli circolanti viene solitamente osteggiata con l’argomentazione che si tradurrebbe in una limitazione delle libertà individuali.
A poco serve, a questo punto, far presente che si tratterebbe, nell’immediato, di un semplice giro di vite sulle utenze più pericolose come alcolisti e pirati della strada.
Alla stessa maniera ogni legittima proposta di limitare le velocità finisce con l’attentare a quello che l’italiano medio considera il ‘diritto alla guida sportiva’.
Un atteggiamento di disprezzo dei rischi connessi agli spostamenti in automobile che è parte integrante della comunicazione commerciale, esplicita (spot pubblicitari) ed occulta (film e serie televisive che rappresentano in chiave positiva la conduzione di autoveicoli al limite delle loro possibilità e competizioni agonistiche incentrate sulla guida di veicoli a motore).
MARCO PIERFRANCESCHI

8 commenti:

  1. COMMENTO DI SERGIO (nserito da me per motivi tecnici)

    Si direbbe che l'uomo di oggi conosca solo diritti, di doveri non si parla mai.
    Mazzini ha scritto un libro con un bel titolo: I doveri dell'uomo. Fra questi doveri ci metterei anche quello di non rompere le scatole al prossimo senza necessità. D'accordo con le tasse, il servizio militare ecc. ecc., ma c'è anche un mio privatissimum in cui nessuno deve mettere il naso. Se no diciamolo che l'ideale è la dittatura (di un despota o della maggioranza). Rimando alla Sociologia del passero nel blog di Pardo.

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    1. Caro Sergio, il paradosso è che parlare di doveri insieme ai diritti non è solo etico, o anche solo giusto, ma è proprio inevitabile.
      Perchè qualsiasi diritto esiste solo nella misura in cui il titolare abbia in carico anche il corrispondente dovere.

      Non è che una pretesa senzo il corrispondente onere non possa esistere, ma bisogna cambiargli nome e passare dal concetto di diritto a quello di privilegio.
      Il mondo - essendo ingiusto - è pieno di privilegi: però almeno si abbia l'onestà di chiamarli col loro nome.

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  2. A proposito delle guerre di religione in Europa e del compromesso raggiunto col "cuius regio", riporto questa breve considerazione letta su Limes:

    << Max Weber attribuì alla religione il peccato originale del moderno destino europeo (paesi del nord contro paesi del sud - NdL): il cristianesimo riformato, adottato dai paesi protestanti del Nord e dell’Est d’Europa, contro quello non riformato, proprio dell’arco cattolico e ortodosso.
    Ma potremmo andare ancora più indietro, perché la frattura religiosa ricalca una divisione preesistente: i territori che abbracciarono la Riforma, infatti, furono in gran parte quelli germanofoni (incluso il ramo anglofono), ancorati alla tradizione di common law.
    Viceversa, quelli in cui la Riforma non ha fatto breccia sono di lingua neolatina e di tradizione giuridica romana (civil law). >>

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  4. Quanto afferma Scurati sulla scuola mi pare decisamente condivisibile: "l’unico risultato di spegnere in loro ogni autentico desiderio di conoscere". Aggiungo una cosa: non c'è conoscenza senza ignoranza se non altro perché, se non ignorassimo, conosceremmo già tutto e cadrebbe anche la ragione di passare metà di una giornata sui banchi. Quindi per "conoscere" è necessario porsi domande di cui non si sa la risposta. In ambito educativo definirei quindi "legittime" le domande cui dare una risposta e "illegittime" quelle di cui la risposta è già nota. Ma succede che, data la parossistica euforia valutativa di cui parla Scurati, gli insegnanti pongano agli studenti esclusivamente domande "illegittime". Perché? Perché sono "misurabili". Ergo: il conoscere è una pratica sgradita, direi quasi fastidiosa, che l'istituzione cerca di rimuovere dalla scuola.

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    1. COMMENTO DI SERGIO

      Mah, la scuola ha soprattutto la funzione di trasmettere conoscenze già acquisite, consolidate. Si giudica poi maturo e in grado di accedere a studi superiori chi possiede un certo bagaglio culturale ritenuto assolutamente necessario. È vero che gli studenti più intelligenti hanno un vivo senso critico che l'istituzione addirittura promuove o dovrebbe promuovere, ma entro certi limiti che sono poi i limiti dell'istituzione scolastica. Dunque non dividerei le domande fra legittime e illegittime. Il docente impara anche lui nell'interazione con lo studente, ma ha o dovrebbe avere un bagaglio superiore a quello dell'allievo. E questo bagaglio contiene risposte preconfezionate alle domande degli allievi che per gli allievi significano conoscenza. È utopico immaginare una scuola, una istituzione che si reinventa di continuo affrontando sempre nuove questioni o problemi dall’esito non scontato.

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    2. Io credo che i problemi dei nostri insegnanti universitari siano sostanzialmente di tempo e di atteggiamento.

      Di tempo, perchè se devi dedicare una parte importante della tua giornata alle scartoffie poi ti resta meno spazio per l'insegnamento e la ricerca (che non deve mai fermarsi, a questi livelli).

      E di atteggiamento, perchè la mentalità burocratica cambia il modo di pensare delle persone, e crea delle gabbie formali, anche solo a livello implicito, che sono le prime nemiche dell'insegnamento universitario.

      Però se l'università è pubblica e quindi vive dei soldi erogati dallo Stato la corruzione è dietro l'angolo e le valutazioni formali danno l'illusione dell'oggettività.
      Io penso che l'università funzioni meglio come istituzione privata, piuttosto che pubblica, ma ovviamente posso sbagliare.

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  5. A proposito del commento di Sergio: certo che il docente ha un bagaglio culturale da trasmettere ed è altrettanto vero che, necessariamente, molte risposte siano preconfezionate. Ma in un primo messaggio, poi cancellato, avevo dimenticato l'avverbio "esclusivamente". Ecco, quando le domande sono esclusivamente illegittime, la conoscenza è morta e forse, con lei, anche la scuola.

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