sabato 8 settembre 2018

Il genio di Darwin - 8

(Dal libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” – Ottava parte. Lumen)


<< Quando si scende al livello dei geni e delle molecole il panorama cambia radicalmente e molti termini introdotti per l'analisi al livello degli organismi perdono parte del loro significato. Dobbiamo sbarazzarci quindi del tutto di questi termini? Direi di no. Sono ancora utili al livello descrittivo e illustrativo, allo stesso modo in cui si può parlare di febbre, anche se oramai si conoscono i meccanismi che la generano, o di prurito, anche se si sa con precisione che cosa c'è dietro.

Non c'è dubbio per esempio che nel quadro generale di una diversificazione degli organismi viventi si possono riconoscere innumerevoli esempi di strutture più o meno ben adattate ad alcuni aspetti dell'ambiente e dello stile di vita tipici delle singole specie. In questo contesto il concetto di adattamento è uno di quelli più usati e più presenti nella mente di chi parla, con professionalità o meno, di evoluzione.

Più o meno inconsciamente, molti sono portati a concepire le varie specie come statuine di plastilina che possono assumere varie forme e acquisire varie caratteristiche sotto la spinta della selezione naturale, che le modella sulle caratteristiche del loro ambiente.

Non si tratta di un'immagine del tutto campata in aria, a patto però che si consideri che l'evoluzione naturale plasma, col tempo, solo ciò che è di fatto plasmabile; cioè ciò che non è vietato dalle leggi della fisica e della chimica e, soprattutto, ciò che è compatibile con l'esistenza di un genoma che deve permanere non molto diverso da se stesso ed essere trasmesso da una generazione all'altra.

L'esistenza di un genoma attribuisce al blocco di plastilina un'anima di metallo all'interno. Queste limitazioni ineludibili – di natura fisica, chimica o biologica – che condizionano il processo evolutivo vero e proprio, effetto della variazione e della conseguente selezione, vengono dette vincoli evolutivi.

Per esempio, il fatto che le balene e i delfini non abbiano sviluppato strutture di tipo branchiale, certamente più adatte dei loro polmoni alla vita acquatica, deve essere considerato come effetto di qualche tipo di vincolo essenzialmente biologico, dovuto alla struttura del genoma o alle leggi dello sviluppo.

Va detto inoltre che il concetto di adattamento e la schiera di termini che lo accompagna trovano la loro più legittima utilizzazione quando si segue l'evoluzione di una specie o di un genere lungo una particolare linea evolutiva. In quel caso, poiché si sa già come va a finire la storia, almeno fino a un certo punto, i concetti di valore adattivo e selettivo coincidono e l'evoluzione acquista una sua plausibilità e un grado di persuasione psicologica di cui è difficile ignorare l'influenza.

Prendiamo la storia del cavallo. Negli ultimi cinquantacinque milioni di anni si è passati da un piccolo Mammifero che possedeva quattro zampe a cinque dita, terminanti con altrettanti piccoli zoccoli, e che si cibava di foglie a un animale un po' più grande che si cibava d'erba e infine al possente animale che conosciamo oggi, che si ciba sempre di erba ma possiede zampe dotate di un solo dito a forma di zoccolo.

Il cavallo che ci è familiare appartiene al genere Equus, che comprende al momento sei o sette specie più o meno rappresentate. Grazie ai resti fossili, la storia degli antenati del cavallo si può appunto delineare almeno a partire da circa cinquantacinque milioni di anni fa. A quell'epoca, dieci milioni di anni dopo l'estinzione in massa dei dinosauri e l'inizio del faticoso cammino dei Mammiferi, si fa risalire l'esistenza di un animale delle dimensioni di un grosso gatto chiamato oggi Hyracotherium, un tempo Eohippus.

Questo ungulato primitivo viveva in un ambiente caldo e umido. Con le sue svelte zampe (quelle davanti con quattro dita, e tre per quelle posteriori) si muoveva agevolmente sui terreni melmosi e si cibava delle foglie tenere dei rami bassi degli arbusti di latifoglie. Da questo proto-cavallo deriva direttamente il Mesohippus che popolò l'America Settentrionale venti milioni di anni dopo. Era leggermente più alto del suo antenato, le sue zampe possedevano tre dita (quella centrale più sviluppata delle altre due), aveva un muso più allungato e un cranio leggermente più voluminoso.

Quando il clima da caldo e umido divenne sempre più freddo e più arido, le foreste di latifoglie cedettero il posto a grandi estensioni di steppe erbose. Si osservò allora una radiazione di vari generi, alcuni dei quali continuarono a mantenere il loro stile di vita cercando sempre nuovi ambienti finché non si estinsero. Esaminando i resti fossili di questi generi estinti appartenenti a linee evolutive collaterali possiamo trovare le tracce degli esperimenti naturali più diversi che includono sia forme giganti (Megahippus) che forme nane (Archaeohippus).

Il genere destinato a perpetuarsi fino ad arrivare al cavallo dei giorni nostri è invece il Merychippus che quindici milioni di anni fa imparò a cibarsi di erba, grazie a una progressiva trasformazione della sua dentatura, e a correre sicuro sul terreno compatto delle praterie, grazie alle sue zampe che terminavano con uno zoccolo centrale, già preminente rispetto a quelli delle altre due dita. Nel periodo successivo seguirono molte altre radiazioni evolutive, tra le quali vale la pena di ricordare il genere Pliohippus, che visse meno di dieci milioni di anni fa e che mostra ormai quasi tutti i caratteri del cavallo moderno.

Percorrendo questa serie evolutiva dall'Hyracotherium all'Equus si possono osservare molte trasformazioni secolari come l'aumento delle dimensioni del cranio e di tutto il corpo e la progressiva trasformazione degli arti e della dentatura. Accanto a queste trasformazioni che col senno di poi ci sembrano condurre da qualche parte, si possono però osservare innumerevoli tentativi di percorrere altre vie.

Le specie di cui ci sono giunti i resti fossili, senza contare quelle delle quali non possediamo al momento alcuna documentazione concreta, testimoniano chiaramente di un continuo, quasi affannoso, tentativo di proporre nuove soluzioni evolutive. Solo pochissime di queste si sono rivelate valide, per pregi intrinseci o per puro caso, e hanno condotto al cavallo. Questo a sua volta non è l'unico mammifero di successo. È solo uno dei tanti che popolano il nostro pianeta.

La storia evolutiva del cavallo, una delle meglio costruite e probabilmente emblematica di molte altre, non è che una successione di eventi individuati dal naturalista e collocati da questi in un ordine temporale significativo. Come questa se ne potrebbero individuare miriadi di altre: la stragrande maggioranza di tali storie non avrebbe un lieto fine ma rappresenterebbe un ramo morto. L'unico dato certo è la continuità per discendenza diretta di un certo numero di individui e il fatto, innegabile, che ci sia qualcuno che li sta studiando.

Un'altra applicazione molto conveniente del concetto di adattamento si può riscontrare nell'analisi dell'evoluzione delle caratteristiche di un organo specifico lungo una particolare linea evolutiva. L'elefante, per esempio, non aveva probabilmente alcuna necessità di possedere una proboscide. Ma dal momento che gli è toccata, la selezione ha fatto in modo che questo organo fosse sempre più utile, anche se nessuno conosce ancora tutte le sue potenzialità.

Insomma, data una struttura o una funzione biologica, la selezione opera in modo da renderla sempre più adatta al suo ruolo. Ancora una volta possiamo dire che la selezione naturale rifinisce e perfeziona secondo criteri suoi propri ciò che il caso ha offerto e messo in campo. >>

EDOARDO BONCINELLI

(continua)

2 commenti:

  1. Da quest'altro passo di Boncinelli mi sembrano uscire corroborate le tesi dei due grandi biologi francesi Premi Nobel '65 per la Medicina: la teoria del Caso & della Necessità di Monod (che so molto apprezzata da Lumen) e quella della Selezione naturale come 'bricoleur' di Jacob...

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  2. Sono d'accordo.
    Monod, in effetti, è uno dei miei autori preferiti, mentre Jacob non lo conosco molto.
    Però il concetto di selezione naturale come 'bricoleur' è sostenuta anche da Richard Dawkins, di cui ho letto (quasi) tutto.

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