sabato 21 febbraio 2015

Tainter e le società complesse

Ho già accennato in passato al mio disappunto per non poter leggere il mitico libro di Joseph Tainter sul “Crollo delle società complesse”, in quanto privo di una edizione italiana. Così, quando posso, gironzolo sul web nella speranza di trovare qualche  contributo che mi possa illuminare sul Tainter-pensiero, ed a volte sono fortunato.
Ecco quindi un nuovo post dedicato a Joseph Tainter ed alla complessità, con alcune interessanti considerazioni sull’argomento del blogger Marco Pierfranceschi (Mammifero Bipede).
LUMEN


<< Una delle mie attuali preoccupazioni riguarda il "quando" e il "come" gli effetti dell’esaurimento delle risorse fossili  diverranno evidenti, e come reagirà a questo inevitabile, catastrofico, evento la nostra "civiltà" (ammesso che il termine sia ancora applicabile al delirio odierno). Mi affascina in particolare l’idea di osservare la situazione nel suo compiersi, consapevole del disporre di un punto di vista giocoforza viziato dalla collocazione dell’osservatore, spazialmente e temporalmente all’interno del sistema osservato.

Su questo argomento, tra le ultime cose che ho letto vi è un’analisi del collasso dell’Impero Romano, letto attraverso la lente del “Rapporto sui limiti dello sviluppo”, (…) [elaborato] dal prof. Ugo Bardi di ASPO-Italia. (…) Bardi sviluppa un ragionamento parallelo tra le vicende dell’impero Romano e gli eventi attuali attraverso un’analisi comparata. (…)

La prima parte dell’analisi conferma quanto estremamente difficile sia rendersi conto dei lenti mutamenti epocali vivendoli dall’interno in prima persona. Dalle "Meditazioni" di Marco Aurelio (…) fino al viaggio verso la Gallia di Rutilio Namaziano, appare evidente come la portata degli eventi in corso, che noi posteri possiamo inquadrare storicamente, sfuggisse ai contemporanei. Non ho alcun dubbio sul fatto che, analogamente, la portata degli avvenimenti in atto in questo momento sfugga anche a noi. Anche a quelli di noi che più si sforzano di comprenderli.

Stabilita l’estrema difficoltà di comprendere dall’interno il fenomeno, Bardi passa ad affrontare l’analisi delle cause del crollo dell’Impero Romano, partendo dal lavoro di Joseph Tainter sul "collasso delle società complesse".

Il succo del lavoro di Tainter è che l’aumento di complessità che si rende necessario per gestire una fase di crescita (della ricchezza, della popolazione, del territorio), nel lungo periodo finisce con l’essere uno degli elementi determinanti del collasso, frenando e di fatto impedendo il riallineamento ad uno stato di minor complessità, compatibile con il ridotto livello di disponibilità energetica in cui il crollo del sistema si arresta.

Nel nostro caso abbiamo avuto a disposizione per decenni energia in abbondanza a costi estremamente bassi (il petrolio), ed abbiamo inventato innumerevoli modi per trasformare questa energia in oggetti reali, dando vita ad una sorta di gigantesco "paese dei balocchi" cui tutto l’occidente ha preso parte.

Ma una volta che questo surplus energetico verrà a mancare, come tutto lascia supporre ed in parte si sta già verificando, la civiltà che abbiamo strutturato intorno ad esso, al pari dell’Impero Romano, non potrà più autosostentarsi e sarà obbligata a rivedere al ribasso non solo le aspettative dei singoli individui, ma anche, inevitabilmente, il grado di complessità raggiunto.

Uno dei "dettagli" su cui non sono d’accordo con Bardi (e con Tainter, ma probabilmente è solo una questione di definizioni…) è sull’identificare il picco della "civiltà" con quello della "complessità". L’aumento di complessità è una delle risposte che la società mette in atto per far fronte ai problemi generati dalla crescita, ma questo processo non è lineare ed i due termini non sono sinonimi. Il motivo della rapida "escalation" di una civiltà sta nella sua efficienza.

Da questo punto di vista dobbiamo ritenere che l’Impero Romano fosse, nella sua prima fase, straordinariamente efficiente nel convertire ricchezza in complessità. Oltre un certo punto, però, questo meccanismo comincia a perder colpi, presumibilmente nel momento in cui la curva di resa energetica si appiattisce e ci si trova con minor risorse a disposizione. In questa fase la strategia consistente nell’aumentare in complessità inizia a produrre inefficienze, anziché ottimizzazioni. (…)

Il mio parere è che la "complessità" continui a crescere ancora, quando la "civiltà" già declina. Nel dettaglio, per quanto posso osservare, nella nostra cultura il "picco della civiltà" è già stato superato mentre la complessità continua ad aumentare, sempre meno gestibile, ed il declino morale e culturale appare evidente. Quello stesso declino che non solo rende da ultimo impraticabile un ulteriore aumento di complessità, ma ben presto impedisce al sistema di riassestarsi su un qualunque inferiore livello pre-crisi, producendone il collasso.

Collasso, quindi, come conseguenza di una "ricchezza" venuta a mancare e di una complessità divenuta insostenibile ed incapace di ristrutturarsi. Uno dei fattori in gioco è, a mio parere, proprio quella che viene citata all’inizio dell’articolo attribuendola allo storico Gibbon: "la perdita di fibra morale", non già da attribuirsi alla diffusione del cristianesimo, quanto come inevitabile sottoprodotto (in negativo) della crescita stessa.

Il processo che ho in mente si muove attraverso una serie di passaggi. In principio la società è organizzata in maniera molto rudimentale, a bassa complessità, e qualcosa le dà un minimo vantaggio strategico sulle culture adiacenti.

In questa prima fase la vita è molto dura, ed agisce un efficiente processo di selezione sociale in base alle capacità: tutti sono consapevoli che la sopravvivenza ed il successo della collettività di cui si fa parte dipendono strettamente dal fatto di avere i migliori capi ed i migliori cervelli nelle posizioni chiave della società, e si fanno carico di ricoprire ruoli adeguati alle proprie capacità.

Questa "fase positiva", nel caso di Roma, durò diversi secoli. Un villaggio di combattivi pastori ed agricoltori si trasformò via via in una potenza tecnologica e militare, in grado di conquistare ed asservire prima la penisola italica, poi l’intero bacino del mediterraneo, strutturandosi a livelli di complessità crescenti. Ma giunti a questo punto le condizioni risultano cambiate, ed il meccanismo di "selezione in base alle capacità" perde di efficacia.

Come in un organismo vivente, in cui piccoli errori di trascrizione del DNA causano l’invecchiamento e la morte, così in un sistema ad elevata complessità tante piccole scelte sbagliate producono una marcata perdita di efficienza complessiva ed il conseguente declino.

Questo, in buona sostanza, è quello che si può osservare nell’Italia dei giorni nostri, con l’ipernormazione, la burocrazia asfissiante, l’elevato livello di tassazione, la fuga dei cervelli, meccanismi elettivi che collocano persone inadeguate in posizioni chiave, perdita complessiva di consapevolezza nella popolazione, mancato rispetto delle regole, declino etico e morale.

Esiste, perciò, un fattore di "inerzia dei sistemi" tale da produrre inevitabilmente una crisi catastrofica. O, quantomeno, un lento scivolare verso il basso che a posteriori ci farà definire "crisi" l’attimo della presa di coscienza dell’avvenuto cambiamento. E c’è veramente poco da fare per far accettare ad una popolazione l’evidenza di un inevitabile scadimento rispetto agli standard di vita alla quale era stata abituata. (…)

Concordo [invece] con Bardi sul fatto che sia virtualmente impossibile evitare l’evoluzione catastrofica degli eventi. La capacità di dare ascolto alle "cassandre" si perde quando la "complessità" cresce al punto da rendere l’intera organizzazione sociale incomprensibile ai più, e solo un enorme surplus energetico, qual è stato quello degli ultimi cento anni, può consentire la sopravvivenza di un sistema in condizioni tanto critiche.

Cosa questo significherà dovremo scoprirlo sulla nostra pelle, e dubito che ci piacerà prendere atto di non avere più "la terra sotto i piedi".  >>
 
MARCO PIERFRANCESCHI

2 commenti:

  1. Come avra' fatto il "complesso oltre ogni nostra capacita' di comprensione" mondo naturale a sbrigarsela finora senza l'apporto dei pianificatori di piste ciclabili come il nostro arguto autore dell'articolo sopra.
    La domanda non e' retorica.
    E credo di sapere la risposta...

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  2. Probabilmente c'è sempre stato qualcuno che si è preso l'incombenza di pianificare, anche se magari non le piste ciclabili... :-)

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