sabato 13 luglio 2013

Tutti per uno, uno per tutti – 1

La teoria del “gene egoista”,  ormai prevalente tra gli evoluzionisti, ha il suo principale alfiere in Richard Dawkins, che ne ha posto le fondamenta con i suoi due libri più famosi: IL GENE EGOISTA ed IL FENOTIPO ESTESO.
Il cuore della teoria è che i geni che si sono imposti nelle popolazioni sono quelli che provocano gli effetti più utili al loro proprio interesse, che è quello di continuare a riprodursi, e non anche (se non secondariamente) all’interesse dell'individuo in sé.
Ma questo “egoismo” spiega anche in modo adeguato l'altruismo degli individui nella natura, in particolare nel cerchio familiare; infatti, quando un individuo si sacrifica per proteggere la vita o il benessere di un membro della sua famiglia, in realtà agisce nell'interesse dei suoi propri geni.
Proprio sulla teoria neo-darwiniana del gene egoista si basa questo interessante articolo dell’antropologo inglese Chris Knight dal titolo “La solidarietà umana ed il gene egoista" di cui riporto i passi principali.  
LUMEN


<<  L’idea più sinistra e più crudele di Darwin [la lotta per la sopravvivenza] fu presa in prestito al reverendo Thomas Malthus, un economista al soldo della Compagnia delle Indie orientali.
Malthus non si interessava all'origine delle specie; la sua idea era politica.

Le popolazioni umane, affermava, cresceranno sempre più rapidamente dell'offerta di cibo. Lotta e carestia ne risultano inevitabili. La carità pubblica, diceva Malthus, non può che aggravare il problema: gli aiuti fanno sentire i poveri al sicuro, e ciò li incoraggia a riprodursi.
Nutrire più bocche comporta una maggiore povertà e dunque ulteriori richieste - insaziabili - di aiuto sociale. La migliore politica è lasciare i poveri morire. (…)

Darwin vide la moralità del "lasciare-fare" di Malthus operante ovunque in natura. La crescita di popolazione nel mondo animale precedeva sempre l'offerta locale di cibo; da qui l'ineluttabilità della competizione che si conclude con la fame e la morte dei più deboli.
Mentre i moralisti ed i sentimentalisti avrebbero cercato di addolcire questa immagine di una Natura crudele e senza cuore, Darwin seguì Malthus nel celebrarla. 

Come il capitalismo puniva brutalmente i poveri ed i bisognosi, la "selezione naturale" eliminava queste creature meno capaci di cavarsela.
Poiché i meno capaci di ogni generazione morivano, la prole dei superstiti era sproporzionatamente più numerosa, trasmettendo dunque a tutte le future generazioni le loro benefiche caratteristiche ereditarie.
Carestia e morte, di conseguenza, erano dei fattori positivi, in una dinamica evolutiva che puniva inesorabilmente l'insuccesso ricompensando il successo.

In tal modo, Darwin riuscì a conferire alla teoria evoluzionistica delle implicazioni politiche.
Lungi dal servire a giustificare la resistenza allo sfruttamento capitalista o alla disuguaglianza sociale, questa versione maltusiana dell'evoluzionismo fu fatta per servire una funzione politica opposta. Darwin descrisse la natura come un mondo senza morale. Di conseguenza, questo dava una certa giustificazione ad un sistema economico basato su una competizione sfrenata, libero da ogni ingerenza “morale” fuorviante proveniente dalla religione o dallo Stato. (…)

Dopo la morte di Darwin nel 1881, molti pensatori influenti tentarono di attenuare la forza del ragionamento apparentemente duro ed amorale di Darwin, cercando dei modi di riconciliare la teoria evoluzionistica con i valori religiosi o umanistici. (…)
Una maniera assai diffusa di salvare una dimensione “morale” del ragionamento di Darwin era di suggerire che il motore competitivo del cambiamento evolutivo non opponeva gli individui tra loro ma gruppi.

L’espressione “sopravvivenza del più capace” (come si diceva allora) significava la sopravvivenza dei gruppi o delle specie più capaci, gli uni e le altre considerate nella loro totalità, e che implicava una stretta cooperazione in seno ad ogni specie.
Secondo questo ragionamento, gli individui erano creati per favorire gli interessi della specie. I membri di qualsiasi specie dovevano cooperare gli uni con gli altri, essendo la loro sopravvivenza individuale dipendente dalla sorte di tutto l’insieme.

Questa idea fu accettata con molta stima perché era completamente in accordo con le tendenze della filosofia morale, inclusa la tendenza, “piccolo borghese” del socialismo e del nazionalismo, all’inizio del secolo.
Le nazioni erano associate alle "razze" e comparate alle specie animali. Ogni specie, razza o nazione erano supposte essere impegnate in una competitiva lotta a morte contro le proprie rivali.

Quelle i cui membri cooperavano per bisogno collettivo sopravvivevano; quelli i cui membri agivano "egoisticamente" finivano per estinguersi. Quando certi animali o uomini mostravano un comportamento cooperativo, esso era spiegato in termini “morali” in riferimento ai bisogni del gruppo. (…)
L'eugenetica si guadagnò un’ampia stima, anche presso un gran numero di persone di sinistra; in Germania, giocò un ruolo chiave nella formazione dell'ideologia nazista.  (…)

La teoria evoluzionistica della “selezione di gruppo” - come è chiamata ora – si guadagnò la sua formulazione più sofisticata ed esplicita nel 1962, quando il naturalista scozzese V. C. Wynne-Edwards pubblicò un libro intitolato Animal Dispersion in Relation to Social Behaviour.
Per Wynne-Edwards, che in ciò seguiva Malthus, il problema fondamentale incontrato da ogni gruppo o specie era quello della riproduzione sfrenata.
La sovrappopolazione alla fine conduceva alla penuria, inducendo la carestia ad una scala che potrebbe minacciare l’intera popolazione locale. Quale era la soluzione?

Secondo Wynne-Edwards, era la specie nel suo insieme che doveva agire.
Meccanismi speciali si erano dovuti evolvere per evitare la riproduzione al di là della capacità di carico del suo ambiente naturale. Si aspettava perciò che gli individui frenassero la loro fecondità nell'interesse del gruppo.
Sulla base di questa teoria, Wynne-Edwards cercò di spiegare un certo numero di curiose caratteristiche della vita sociale animale ed umana.
In particolare, pretese di spiegare dei comportamenti apparentemente ripugnanti come il cannibalismo, l'infanticidio ed il combattimento o la guerra tra gruppi.

In apparenza negative, ad un livello più generale tali pratiche costituirebbero una serie di adattamenti benefici con cui ogni specie si sforzerebbe di limitare la sua popolazione. (…) [Gli animali] che presentano un tale comportamento non agiscono in modo egoista o antisociale; avvantaggiano la specie contenendo la popolazione.
Nell’uomo, le attività violente come la guerra hanno una funzione simile. In un modo o in un altro, i livelli di popolazioni umane devono essere limitati; la guerra, associata ad altre forme di violenza, aiutava a raggiungere l’obiettivo.

Questo genere di pensiero “selezionista di gruppo” restò influente in seno al darwinismo fino agli anni 1960.
Ma, esponendo la sua formulazione in termini tanto veementi ed espliciti, Wynne-Edwards involontariamente espose il ragionamento del "vantaggio per la specie" ad un attacco più finemente mirato, che minava l'insieme dell'edificio teorico.

Appena gli scienziati cominciarono a riflettere sui pretesi “meccanismi di riduzione di popolazione”, le ragioni per cui non potevano funzionare diventarono chiare su un piano puramente teorico.
In che modo un’intera specie poteva mobilitare i suoi membri per un'azione collettiva, reagendo in previsione delle future penurie di cibo?

Supponiamo, come esempio, l'esistenza di un gene che susciterebbe o faciliterebbe un comportamento che presenta le due seguenti caratteristiche:
(a) porterebbe beneficio alla specie ad una data postuma, ed allo stesso tempo
(b) ostacolerebbe al momento il successo riproduttivo del suo possessore.
Come un tale gene potrebbe essere trasmesso in un futuro, dove si realizzerebbero i suoi supposti benefici?

Parlare di un gene di minor successo riproduttore è semplicemente una contraddizione. Esso non sarebbe trasmesso. I suoi futuri supposti benefici non potrebbero mai realizzarsi.
La teoria della "selezione di gruppo" nella sua totalità era semplicemente illogica. Questa comprensione inaugurò una rivoluzione scientifica, uno dei più monumentali sconvolgimenti della storia scientifica recente, con un gran numero di implicazioni per le scienze umane e sociali.  >>

CHRIS KNIGHT

(continua)

2 commenti:

  1. Non capisco. L'interesse del gene (di ogni individuo) è di riprodursi a qualsiasi costo - di conseguenza bellum omnium erga omnes. Fin qui ci arrivo. Poi sembra che il gene a un certo punto si renda conto che le alleanze possono servire ai suoi scopi: la solidarietà paga, ma ovviamente lui pensa soprattutto se non esclusivamente sempre a se stesso - e come potrebbe diversamente? Ma inevitabilmente la solidarietà è anche cessione di sovranità, tanto che a un certo punto l'individuo non conta più nulla per il gruppo: quel che conta è la sopravvivenza non del singolo individuo col suo gene egoista, ma quella del gruppo. A questo punto però il gene egoista è fregato: è costretto al suicidio per il "bene comune".
    Mi sembra che ciò sia ben rappresentato dalle tendenze che via si alternano nella società: da un lato l'individualismo come massima espressione dell'uomo (e quindi vittoria del gene egoista). Dall'altro la spinta all'altruismo per sopravvivere come gruppo (cristianesimo e socialismo sono le espressioni più note di questa tendenza).
    Sinceramente non so decidermi. Trovo soffocante e persino contro natura l'abbraccio (quasi mortale) del gruppo, il prevalere del cosiddetto "bene comune" che deve per forza conculcare le aspirazioni del singolo. Direi che in questo momento storico stia di nuovo prevalendo questa tendenza, anche per la difficile gestione del gruppo causata dallo straordinario incremento demografico.
    D'altra parte il gruppo ha quasi sempre riconosciuto il valore dell'individuo creatore e geniale che con le sue invenzioni favorisce lo sviluppo e il progresso e quindi apporta un contributo decisivo alla sopravvivenza e al benessere di tutto il gruppo. Tutte le società hanno infatti interesse al talento dei singoli per la sua utilità collettiva. La scuola aveva (e forse ha ancora) anche la funzione della selezione dei migliori da cui la società si aspetta evidentemente qualcosa.
    Probabilmente c'è una dialettica fra queste due tendenze, e anche conflitto. Talvolta prevale l'una, talvolta l'altra. Io personalmente non sopporto troppo la retorica del "bene comune" - perché è tendenzialmente contro l'individuo (e quindi contro il mio gene). Il gene si difende così: accusa il gruppo di retorica, di essere contro natura - nel proprio interesse.
    D'altra parte è anche vero che se vincesse il partito del bene comune (Chiesa, comunismo, buonismo) l'individuo non conterebbe più un accidente. E questo al gene non può piacere, no?
    Dànilo Mainardi sottolinea però il vantaggio per la nostra specie dell'altruismo. Sperò però che pensi a un altruismo "temperato".

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  2. << Probabilmente c'è una dialettica fra queste due tendenze, e anche conflitto. Talvolta prevale l'una, talvolta l'altra. >>

    Caro Sergio, forse la storia umana non altro che una eterna oscillazione tra queste due tendenze: l'egoismo del singolo e l'altruismo del gruppo.

    D'altra parte è un'esperienza che facciamo anche noi, ogni giorno: ci sono momenti in cui abbiamo assoluto bisogno di stare da soli, ed altri in cui cerchiamo avidamente la compagnia degli altri.

    Parafrasando Ovidio, si potrebbe dire (con riferimento al gruppo): "nec tecum, nec sine te vivere possum".

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