mercoledì 28 febbraio 2018

Il sistema delle pensioni

Tutti conoscono il significato della sigla I.N.P.S. Ma forse – a ben vedere – è stato sbagliato l’acronimo e l’ente che eroga le pensioni in Italia dovrebbe chiamarsi I.N.I.S.: Istituto Nazionale di Imprevidenza Sociale.
Quelle che seguono sono le considerazioni di Lorenzo Celsi sullo spensierato sistema pensionistico italiano (dal suo blog). 
LUMEN


<< Un [recente] articolo del Giornale "berlusconiano" titola: «Pensioni, allarme Ocse: "Assegni troppo bassi". Ma i conti sono a posto».
 
Allora, cominciamo dal titolo. Da una parte si solletica l'elettorato dei milioni di pensionati con "assegni troppo bassi" e dall'altra si conferma il concetto dei "conti a posto". [Peraltro] il fatto che le varie "riforme" abbiano consolidato i bilanci INPS potrebbe non essere tanto vero: infatti (…) lo Stato attinge dalla fiscalità ordinaria per una quota consistente.
 
Ma veniamo al contenuto: «Il vero problema - specifica [l’articolista] - è quello dell'adeguatezza del montante pensionistico» in quanto «per diversi motivi, inclusi i periodi di disoccupazione e di inattività, in molti si ritroveranno ad avere un montante pensionistico e quindi una pensione decisamente bassa».
 
Ora, se c'è una cosa che trovo veramente fantastica è la storiella del "montante". Per due ovvie ragioni.
 
La prima è che non esiste nessun "montante", dato che, come tutti sanno o dovrebbero sapere, l'INPS non accantona i contributi per pagare pensioni future, li spende immediatamente per pagare le pensioni in essere. Il "montante" è solo "virtuale", ovvero è un algoritmo con cui si determina quanti soldi si sono dati all'INPS per pagare le pensioni degli altri e in cambio l'INPS dovrebbe pagare la nostra in futuro.
 
La differenza con i "fondi pensione" di tipo "privato" è ovvia, da una parte non c'è il rischio che il capitale venga attaccato da investimenti sbagliati, crolli di borsa, fallimenti, dall'altra però l'INPS non investe e non guadagna niente, quindi anche nelle condizioni ideali il capitale non si può rivalutare. Anzi, non si può nemmeno reclamare, nessuno può chiedere all'INPS di avere indietro i "contributi".
 
La seconda ragione è che, non esistendo nessun capitale reale, essendo la funzione dell'INPS solo quella di trasferire i contributi nelle pensioni e dato che lo Stato interviene a coprire la differenza tra quanto l'INPS incassa e quanto spende, il calcolo con cui si determina quando si può cominciare ad incassare il vitalizio e l'ammontare di questo vitalizio, è del tutto arbitrario.
 
Infatti per decenni, praticamente da sempre, i "vitalizi" sono stati concepiti come uno strumento per "ridistribuire il reddito", a prescindere, con la doppia funzione della "giustizia sociale" e dell'impulso "keynesiano" (vedi i recenti 80 euro, i bonus da 500 euro ad insegnanti e studenti, eccetera).
 
Quindi esistevano "pensioni anticipate" anche molto anticipate, gente che andava in pensione a 40 anni, esistevano pensioni "retributive" per cui un mese prima del pensionamento c'era il passaggio di livello e bastava quello a determinare retroattivamente il "montante", eccetera.
 
Infine, a prescindere da tutto, visto che lo Stato interviene a coprire gli eventuali ammanchi dell'ente pagatore, niente vieta allo Stato di assegnare un vitalizio a chiunque, indipendentemente da qualsiasi calcolo. Da cui le due variabili vere di tutta questa manfrina sono la "volontà politica" di fare una cosa o l'altra e la possibilità di aumentare il Deficit e da li il Debito Pubblico, specie in un contesto dove lo Stato sopravvive coi prestiti (vedi "spread") e dove non batte moneta quindi non può svalutare (vedi "euro").
 
Ergo, il vero problema del "lavoro" non è la costituzione del "montante" ma più semplicemente che se Mario prende 1.000 euro di pensione, serve che Luigi e Gianni versino 500 euro a testa all'INPS, oppure 300 euro a testa all'INPS e 200 euro a testa allo Stato con imposte che poi lo Stato gira all'INPS.
 
Se Luigi e Gianni non guadagnano abbastanza per versare 500 euro a testa o non lavorano, non è tanto il loro "montante" che ne soffre, è che non ci sono immediatamente i soldi per pagare la pensione di Mario. In altre parole, il problema è il rapporto tra i "lavoratori attivi" e il loro reddito, quindi la loro capacità "contributiva" e i "pensionati" che attingono direttamente da questa capacità "contributiva" per incassare il vitalizio (più tutti i servizi pubblici, come la Sanità, che li vedono esenti).
 
Da notare che i "pensionati" incassano il vitalizio come "diritto". Un "diritto" che, per quanto fondato sulla "volontà politica" e atti arbitrari di Governi e Parlamenti di decenni orsono, non può essere ne alienato ne retroattivamente ridiscusso.
 
Quindi, qui c'è un altro inciso buffo, Governi e Parlamenti contemporanei e futuri giocano sulla arbitrarietà di tutta la faccenda, spostando in avanti la scadenza o il rapporto tra "montante virtuale" e vitalizio per le pensioni imminenti e "congelando" il più possibile quelle in essere.
 
Un po' quello che fanno con il trattamento contrattuale/economico dei Dipendenti Pubblici, altro fronte di "ridistribuzione del reddito", "giustizia sociale" e "impulso keynesiano". Infatti "pensionati" e "dipendenti pubblici" sono due "elettorati" contigui a cui si dicono più o meno le stesse cose.
 
Infine, c'è il problema che il Deficit prodotto ogni anno per cent'anni, pagando tra le altre cose pensioni per mera "volontà politica", ha costituito il Debito che scarica su Luigi e Gianni non solo la necessità di "contribuire" qui e ora per la pensione di Mario, ma renderà sempre più difficile il Deficit e l'ulteriore accumulo di Debito; ergo a Luigi e Gianni non mancherà il "montante", mancherà la "volontà politica" e/o la possibilità per lo Stato di pagargli il vitalizio a prescindere, appunto, dal "montante".
 
Se è vero che lo Stato infonde nell'INPS un certo ammontare prelevato dalla fiscalità ordinaria, cosa succederebbe se ad un certo punto non fosse in grado di farlo e l'INPS si trovasse senza i fondi per sostenere i "diritti acquisiti" ? >>
 
LORENZO CELSI
 

mercoledì 21 febbraio 2018

La donazione che non c'era

Un articolo di Andrea Frediani (tratto dal sito del 'Giornale') su uno dei più importanti falsi storici del passato, ovvero la “Donazione di Costantino”, un documento sul quale la Chiesa Cattolica ha costruito gran parte delle sue fortune. 
E pensare che Gesù Cristo, ai suoi tempi, diceva di essere venuto a portare "la verità”.
LUMEN
 

<< «Ed affinché la dignità pontificale non sia svilita, ma sia onorata più della dignità e della potenza della gloria dell'impero terreno, ecco che, trasferendo e lasciando al più volte nominato beatissimo pontefice, il padre nostro Silvestro, papa universale, e alla potestà e giurisdizione dei pontefici suoi successori, il nostro palazzo e tutte le province, luoghi e città di Roma, dell'Italia, e delle regioni occidentali, determiniamo, con decreto imperiale destinato a valere in perpetuo, in virtù di questo nostro editto e prammatico costituto, che essi ne possano disporre, e concediamo che restino sottoposti al diritto della Santa Romana Chiesa».
 
Quando è un imperatore a mettere nero su bianco parole così pesanti, la storia può cambiare in modo radicale. La citazione è il passaggio più importante di un documento, la Donazione di Costantino (Constitutum Constantini), con il quale l'imperatore Costantino I il Grande, quello passato alla storia soprattutto per aver reso lecita la religione cristiana, consegna l'impero romano al papa Silvestro I e ai suoi successori.
 
A quanto è scritto nel documento, nel 314 d.C. il pontefice sarebbe stato capace di guarire il sovrano dalla lebbra e Costantino, in un impeto di gratitudine, lo avrebbe ricompensato nientemeno che con l'impero.
 
Nella Donazione si legge: «il clero della santa Romana Chiesa sia ornato come l'esercito imperiale»; inoltre, tanto per rafforzare il concetto cardine, «al beato padre nostro Silvestro, sommo pontefice e papa universale della città di Roma, e a tutti i pontefici suoi successori che siederanno nella sede di Pietro fino alla fine del mondo, immediatamente consegniamo, il nostro imperiale palazzo del Laterano, che è il più illustre e onorato dei palazzi del mondo, e poi il diadema, cioè la corona del nostro capo, e, insieme, il berretto e il super-omerale, ossia la fascia che suole circondare il collo del l'imperatore, e, ancora, la clamide purpurea e la tunica scarlatta e tutte le vesti imperiali, la dignità di cavalieri imperiali, gli scettri imperiali e, insieme, tutte le insegne, le bandiere e i diversi ornamenti imperiali, e ogni prerogativa dell'eccellenza imperiale e la gloria del nostro potere».
 
Una disposizione di tale portata avrebbe dovuto scongiurare qualunque disputa tra potere spirituale e potere temporale, tra imperatori medievali e papi, chiarendo una volta per tutte che l'imperatore non poteva essere altro che un vassallo del pontefice, a sua volta vicario di Cristo e diretto interprete della volontà divina.
 
E non è un caso che il documento, apparentemente risalente all'inizio del IV secolo d.C., sia saltato miracolosamente fuori solo pochi decenni dopo l'istituzione del Sacro romano impero, ovvero nel IX secolo: l'incoronazione di Carlo Magno, avvenuta nella notte di Natale dell'800 su iniziativa del papa Leone III, aveva posto fin da subito, infatti, rilevanti problemi di gerarchia.
 
Leone aveva bisogno di un alleato contro i suoi avversari politici, che avevano tentato di accecarlo, e aveva seguito l'esempio dei suoi più immediati predecessori, ricorsi al sostegno dei ‘franchi’ contro i ‘longobardi’ che circondavano il nascente Stato della Chiesa.
 
E se papa Zaccaria aveva confermato al padre di Carlo Magno, Pipino il Breve, la corona del regno franco, sancendo l'uscita di scena dei re merovingi, Leone era andato perfino oltre, assegnando al suo prescelto la corona di imperatore e resuscitando per lui l'antico impero romano, caduto in occidente da oltre tre secoli; ma, ed era questa la trovata geniale, ponendo la nuova entità statale sotto l'egida papale con quell'aggettivo, «sacro», che avrebbe dovuto chiarire chi comandava davvero: non a caso, era il papa a incoronare l'imperatore, con una sorta di investitura che richiamava quella di un signore col suo vassallo.
 
Ma nell'arco di due generazioni le dispute tra sovrani e papi su chi, per esempio, dovesse nominare i vescovi, erano divenute all'ordine del giorno. È quindi in questo clima che viene alla luce la Donazione di Costantino. Durante tutto il Medioevo, i papi se ne sarebbero valsi per sostenere il loro diritto al potere temporale ovvero la piena sovranità su uno stato, il Patrimonio di San Pietro e la loro preminenza sugli imperatori.
 
Peccato che fosse un falso. Una truffa monumentale.
 
Per secoli non fu percepita come tale, in realtà. Sì, qualche imperatore la mise in dubbio, per ovvi motivi: Ottone III, allo scoccare del millennio, affermò di sapere che a redigerla era stato un certo diacono Giovanni «dalle dita mozze»; molto tempo dopo, Dante non ne metteva in dubbio l'autenticità, ma il valore giuridico, sostenendo che un imperatore non poteva alienare le proprietà che gli erano state trasmesse in eredità da Augusto attraverso i suoi successori; tanto meno il papa poteva entrarne in possesso senza contravvenire all'obbligo di povertà per la Chiesa.
 
Ma fu solo in pieno Umanesimo che qualcuno dimostrò finalmente che si trattava di una bufala. E fu soprattutto Lorenzo Valla, con il suo “De falso credita et ementita Constantini donatione declamatio”, un'opera che la Chiesa mise all'indice e che poté essere pubblicata solo sessant'anni dopo la sua morte, per giunta solo tra i protestanti.
 
A tutt'oggi, tuttavia, non sappiamo ancora quando e da chi fu redatta la Donazione; probabilmente fu un parto della cancelleria papale in un anno a cavallo tra VIII e IX secolo, ma potrebbe essere anche nata Oltralpe, in uno di quei monasteri in cui, nello stesso periodo, fu redatta la collezione pseudo-isidoriana, ovvero quella serie di lettere dei primi papi, decretali, capitolari franchi e deliberazioni conciliari che, inventati di sana pianta o solo interpolati, puntavano a rendere sempre più solida la posizione di supremazia del papato. >>

ANDREA FREDIANI

mercoledì 14 febbraio 2018

Il grande truffatore

L'incredibile storia di Bernard Madoff, tanto geniale nel realizzare le sue truffe finanziarie, quanto sprovveduto nel farsi prendere, e poi condannare, dalla giustizia americana. Dal sito “Il Post”. 
LUMEN


<< L’11 dicembre del 2008, uno dei finanzieri più famosi di Wall Street fu arrestato con l’accusa di aver organizzato una gigantesca frode. Era Bernard Madoff, che il 12 marzo del 2009 fu condannato per undici diversi reati finanziari. Secondo i giudici Madoff aveva organizzato una delle più grandi truffe finanziarie della storia. (…) Gli investitori che si erano affidati a lui per la gestione dei loro risparmi persero circa 65 miliardi di dollari.
 
Il giorno prima di essere arrestato, Madoff confessò ai figli Mark e Andrew che la sua società di brokeraggio e consulenza, la Bernard L. Madoff Investment Securities LLC, si basava completamente su un gigantesco “schema Ponzi”, una truffa inventata da un immigrato italiano negli Stati Uniti nei primi anni del Novecento (…).
 
Carlo Ponzi, poi americanizzato in Charles Ponzi, nacque a Lugo, in provincia di Ravenna, nel 1882. Secondo quanto raccontò lui stesso, sbarcò negli Stati Uniti nel 1903 con in tasca due dollari e cinquanta centesimi. (…) Ponzi fece un gran numero di lavori per cercare di sopravvivere e fondò diverse piccole imprese che finirono tutte molto male. (…)
 
Lo schema che da allora porta il suo nome partiva da un’idea che sembrava geniale: sfruttare un’apparente falla nel sistema postale degli Stati Uniti per comprare in Italia francobolli americani a basso prezzo e rivenderli negli Stati Uniti a prezzo molto più alto. Il sistema non funzionò mai, ma Ponzi non si arrese: cominciò a parlare della sua idea a moltissimi immigrati italiani, promise rendimenti superiori al 400 per cento e cominciò a raccogliere denaro.
 
In pochi anni raccolse milioni di dollari. Il suo sistema basato sull’acquisto di francobolli, però, continuava a non funzionare. Ponzi era quindi costretto a pagare i rendimenti che aveva promesso ai suoi primi investitori con i soldi che investivano i nuovi arrivati.
 
Ponzi riusciva a ottenere denaro sfruttando l’ingenuità degli immigrati italiani. Aveva una grande abilità retorica, era carismatico, si vestiva in modo appariscente e, almeno in apparenza, era davvero ricchissimo. Lo schema, però, non poteva durare a lungo. (…) A un certo punto gli interessi che doveva pagare superarono i depositi dei nuovi investitori e la sua truffa fu scoperta. Ponzi fu arrestato e rimpatriato in Italia. Morì nel 1934, in un ospizio per poveri di Rio de Janeiro, in Brasile.
 
Come Charles Ponzi, anche Madoff scelse le sue vittime tra i membri della sua stessa comunità: gli americani di origine ebraica. Madoff nacque da una famiglia di ebrei di origine polacca a New York nel 1938. Si laureò in Scienze politiche e nel 1960 fondò la Bernard L. Madoff Investment Securities LLC, la società di cui sarebbe stato presidente fino all’arresto.
 
All’inizio la società era piccolissima. Il capitale era costituito dai risparmi che aveva ottenuto lavorando come bagnino e installatore di irrigatori, oltre che dal prestito del padre di sua moglie. Si trattava di una società di brokeraggio che operava fornendo liquidità a chi voleva acquistare titoli e obbligazioni alla borsa di New York. Fu una delle prime compagnie a utilizzare i computer per le operazioni di brokeraggio ed anche per questo motivo, nel corso degli anni, riuscì a ritagliarsi uno spazio tra le grandi società finanziarie di New York.
 
I suo clienti erano principalmente amici e conoscenti del padre della moglie. Il processo ha dimostrato che le attività illegali cominciarono negli anni Novanta, ma secondo gli investigatori risalivano ad almeno vent’anni prima. La strategia di Madoff era completamente diversa da quella di Ponzi: Madoff non prendeva di mira persone a digiuno di finanza proponendogli rendimenti incredibili, ma faceva il contrario.
 
All’interno della sua società, parallelamente all’attività di brokeraggio, Madoff aprì una sezione di consulenza e di gestione del risparmio. In questa divisione lavoravano soltanto i suoi familiari e altre persone di assoluta fiducia. Madoff offriva ai suoi clienti rendimenti garantiti intorno al 10 o al 12 per cento: cifre piuttosto alte, ma non impossibili e di sicuro molto lontane dal fantasioso 400 per cento di cui parlava Ponzi. Le persone che si avvicinavano a Madoff pensavano anzi che quel rendimento del 10 per cento fosse una sorta di garanzia: rinunciare a rendimenti più alti per avere rendimenti sicuri.
 
Quest’idea di “investimento sicuro” fu rafforzata da un trucco che Madoff fu molto abile a sfruttare: [riuscire a ] farsi gestire i soldi della sua società sembrava [quasi] impossibile. Chi voleva entrare tra i suoi investitori doveva “conoscere qualcuno che conosceva Bernard”. Un banchiere di Wall Street disse che Madoff era come “una popstar”: era elusivo, non partecipava alla vita pubblica di New York e, per i suoi clienti, sembrava difficilissimo da raggiungere.
 
Non era uno che pregava la gente di dargli dei soldi: si comportava al contrario come quello che doveva essere pregato perché accettasse di investire i risparmi di qualcuno. Si trattava però di un’atmosfera artefatta: in realtà Madoff non era così selettivo e prima dell’arresto aveva oltre 5000 clienti.
 
La sua società aveva alle dipendenze numerosi agenti il cui lavoro era setacciare i country club, i circoli di golf e altri ritrovi per ricchi dove individuare nuovi potenziali investitori da avvicinare. Una volta avuto accesso a Madoff, gli investitori venivano portati al diciassettesimo piano del Lipstick Building, il palazzo al centro di Manhattan dove Madoff li riceva indossando abiti inglesi di Savile Row e sfoggiando orologi costosi.
 
Madoff illustrava con calma e pacatezza i rendimenti che avrebbe procurato, garantendo che si trattava di rendimenti modesti ma assolutamente garantiti. In questo modo Madoff riuscì ad avere in gestione denaro da personaggi molto famosi – come Steven Spielberg e Kevin Bacon – e da decine di associazioni benefiche ebraiche, come per esempio la fondazione Elie Wiesel.
 
Ognuno di questi clienti affidava a Madoff una cifra da gestire. In genere Madoff cominciava le trattative dicendo sempre: «Iniziamo da una piccola cifra, poi se entrambi saremo soddisfatti passeremo a qualcosa di più corposo». In realtà quel denaro non veniva investito né veniva fatto fruttare in alcun modo. Finiva su un conto corrente della Chase Manhattan Bank, da cui lo stesso Madoff lo prelevava quando i clienti chiedevano la restituzione dell’investimento o i dividendi. 

A Wall Street nessuno si fidava di Madoff. In tutti i suoi anni di attività nessuna delle principali istituzioni finanziarie fece mai affari con lui. I rendimenti che offriva erano troppo alti. Tutti immaginavano che ci fosse dietro qualcosa di losco anche se nessuno sapeva cosa. Le grandi banche si limitarono a stargli lontano in attesa che qualcosa venisse fuori.
 
Le autorità di vigilanza per anni non sospettarono nulla e Madoff passò indenne attraverso alcune ispezioni della SEC (l’autorità garante della borsa, equivalente della nostra CONSOB). Per quanto non fosse molto appariscente, Madoff era comunque considerato un personaggio pubblico, un benefattore che aveva devoluto molti milioni di dollari in beneficenza, oltre che alle campagne elettorali del Partito Democratico. (…)
 
Nel dicembre del 2008 lo schema Ponzi di Madoff si esaurì. Come era accaduto quasi un secolo prima a Charles Ponzi, gli interessi da pagare ai vecchi clienti erano divenuti molto più alti dei nuovi investimenti, complice anche il crollo della banca Lehman Brothers fallita pochi mesi prima. Qualche giorno prima di essere arrestato, Madoff pagò un ultimo bonus di produzione a sé e tutti i familiari. Poi annunciò ai suoi figli che il denaro era finito.
 
Secondo i legali dello stesso Madoff, furono i suoi due figli a denunciarlo all’FBI e a portare al suo arresto l’11 dicembre 2008. La sua società fallì pochi giorni dopo. Gli investitori persero 65 miliardi di dollari e diverse fondazioni benefiche che avevano affidato a Madoff i loro patrimoni dovettero chiudere. Un anno dopo Madoff fu condannato al massimo della pena previsto per gli 11 reati commessi: 150 anni di prigione. Attualmente [2013] Madoff sta scontando la sua condanna nel penitenziario di Butner, in North Carolina. >>  
IL POST

mercoledì 7 febbraio 2018

Il genio di Darwin – 1

Inizia, con questo post, la pubblicazione di ampi stralci del libro “Perché non possiamo non dirci darwinisti” di Edoardo Boncinelli” (edito da Rizzoli), dedicato alla fondamentale “Teoria dell’evoluzione” di Charles Darwin. 
Boncinelli non si limita a spiegare, con la consueta chiarezza, il contenuto scientifico della teoria, ma ce ne racconta anche la storia, dall’elaborazione iniziale (e geniale) di Darwin, sino ai nostri giorni. 

Data la lunghezza, il testo verrà suddiviso in numerosi “capitoli”, che verranno pubblicati con frequenza variabile. Buona lettura. LUMEN
 


<< Di tutte le forme viventi – animali, piante, funghi, protisti e batteri – che si sono succedute nel tempo sulla superficie del nostro pianeta, quattro miliardi di anni fa non ne esisteva nessuna. Le prime testimonianze di vita sulla Terra risalgono infatti solo a circa tre miliardi e ottocento milioni di anni fa. Tutti gli eventi biologici verificatisi a partire da quel momento sono l'oggetto di studio della teoria dell'evoluzione.
 
Con il termine evoluzione intendiamo quel vastissimo complesso di eventi, grandi e piccoli, che hanno interessato la vita sulla Terra dal suo inizio fino alla condizione attuale, plasmandone all'infinito i contorni. L'effetto principale di questi eventi è stato quello di popolare il nostro pianeta di innumerevoli forme viventi, presenti un po' dappertutto e appartenenti a milioni di specie diverse. Senza alcuna eccezione, queste forme sono costituite di cellule, una sola per i batteri e per i protisti, tante o tantissime per tutti gli altri organismi. Il nostro corpo per esempio è costituito da decine di migliaia di miliardi di cellule appartenenti a più di cento tipi diversi.
 
L'evoluzione si identifica quindi con la storia delle forme viventi, presenti e passate. Questa storia vede continui cambiamenti e trasformazioni, con la comparsa di forme sempre nuove accompagnata spesso dall'estinzione di quelle precedenti. Tanto le forme nuove quanto quelle vecchie sono per definizione tutte adatte a vivere nell'ambiente nel quale si trovano, ma mostrano caratteristiche biologiche che noi uomini interpretiamo secondo una nostra scala di valori che ci induce a preferire e a valutare come migliori quelle che più si avvicinano o sembrano avvicinarsi alle nostre.
 
Nell'immaginario collettivo l'idea di evoluzione è spesso associata a quella di «miglioramento», progressivo se non complessivo, delle diverse forme viventi. La verità è ben diversa: in alcune linee evolutive si può vedere un certo «miglioramento» — nel senso sopra precisato —, in altre un «peggioramento», mentre nella maggioranza di esse è impossibile scorgere segni dell'una o dell'altra tendenza. Va detto inoltre che l'evoluzione ha un passo così lento che osservando per qualche anno o per qualche secolo la natura delle forme esistenti non si nota alcun cambiamento significativo.
 
Ciò la differenzia nettamente dall'altra forma di evoluzione presa in considerazione dalla scienza: quella riguardante il cosmo, ovvero l'universo fisico. I primi eventi significativi di quest'ultima forma di evoluzione sono stati incredibilmente rapidi — frazioni infinitesime di secondo, secondi o minuti —, anche se poi il tutto ha rallentato e l'intero processo dura da più di tredici miliardi di anni.
 
La lentezza dei fenomeni evolutivi, unita alla scala veramente esorbitante dei tempi implicati, ha fatto sì che l'uomo non se ne sia reso conto se non in epoche ridicolmente recenti e abbia tuttora difficoltà ad accettarli e a concepirli. Ma è anche la condizione che ci permette di studiarli, di farne oggetto di analisi e di individuarne i principi, così come di parlare in generale della natura alla stregua di un'entità ben precisa e definita.
 
Perché si manifesti qualche cambiamento evolutivo di rilievo occorre attendere il succedersi di molte generazioni. È essenzialmente per questo motivo che l'evoluzione ci appare lenta rispetto alla durata di una vita. Anche se il tempo che intercorre tra una generazione e l'altra è assai variabile nelle varie specie — questione di minuti o di decenni — è pressoché inevitabile per noi attribuire particolare importanza alla durata della nostra esistenza e tendere a rapportare a questa tutte le valutazioni temporali.
 
L'evoluzione si identifica con la storia della vita, anzi con le innumerevoli storie particolari che riguardano una determinata specie o una precisa comunità biologica. Ciò non significa che non si sia tentati di estrarre da tutto questo qualche principio ispiratore, qualche legge o qualche meccanismo specifico. Ciò è più che legittimo perché a questo ci portano la nostra natura e la nostra storia. L'uomo vuole capire, per gestire e prevenire.
 
Tale operazione ci è riuscita particolarmente bene per la materia inanimata, al punto che la fisica e la chimica hanno raggiunto risultati eccezionali e hanno fornito, almeno fino a una certa epoca, un quadro complessivo chiaro e informativo della realtà che ci circonda. Il mondo fisico — dalle galassie alle placche tettoniche — ha le sue leggi generali se non universali, i suoi principi particolari e locali e le sue regole applicative.
 
Lo studio della vita si presenta invece fin dall'inizio un po' diverso. Qui non ci sono leggi universali e neppure principi particolari, mentre abbondano descrizioni e narrazioni, quasi sempre illustrate: la vita è una collezione di entità uniche, sostanzialmente irripetibili, e di processi molto particolari collocati in un flusso temporale più o meno accelerato.
 
Tutto questo si esprime di solito affermando che la biologia è una scienza storica: molte cose sono andate in una certa maniera, ma potevano anche andare in un'altra e solo l'osservazione e la comprensione di ciò che è effettivamente avvenuto ci può fornire informazioni pertinenti e valide. È vero però che, data la lentezza dei cambiamenti evolutivi e la relativa conservazione di alcune strutture biologiche fondamentali, non è impossibile descrivere organi, organismi e specie come sono e come funzionano al momento. Ed è ciò che studia la biologia.
 
Si è soliti parlare di biologia tout court per indicare lo studio delle forme di vita esistenti e delle loro proprietà, mentre si parla di biologia evoluzionistica per indicare l'analisi delle loro trasformazioni nel tempo. Ciò è perfettamente lecito a patto che si tenga presente che tutta la biologia ha un'intrinseca dimensione evoluzionistica, della quale è talvolta comodo osservare specifici spaccati temporali, come se si trattasse di fotografie istantanee in grado di «arrestare» il tempo.
 
Lo studio delle forme viventi, prodotte dalla storia e perennemente immerse nella stessa, si è rivelato particolare e idiosincratico, anche se la cosmologia più recente ci dice che pure il mondo fisico possiede una storia e una sua evoluzione. Le differenze risiedono nell'entità delle diverse scale temporali e nel fatto fondamentale che gli esseri viventi conservano una memoria esplicita degli eventi del passato, dai quali sono stati tra l'altro direttamente forgiati. Dovrebbe essere noto a tutti che gli esseri viventi conservano tale memoria nel loro patrimonio genetico, altrimenti detto genoma, che gli esseri inanimati non posseggono.
 
Tutta la biologia ha tratto profitto dall'idea di un'evoluzione biologica e dal suo studio. Quella evoluzionistica è anzi l'unica idea unificante della biologia, capace di dare un senso a tutte le osservazioni e ipotesi che si possono fare in questo campo. Sul piano della conoscenza pura, quindi, e dell'interpretazione dei fatti biologici, l'idea di evoluzione si rivela ogni giorno di più, come ha fatto in passato, di straordinaria importanza.
 
Ma è soprattutto per la comprensione dell'evoluzione dell'ambiente naturale del nostro pianeta che ci preme oggi capire cosa è effettivamente successo nei secoli addietro, per valutare appieno cosa sta succedendo e cosa verosimilmente succederà. L'insieme degli organismi della Terra, la biosfera, si articola in una collezione di tantissimi ecosistemi locali dove animali, piante e microorganismi interagiscono e competono per adattarsi al meglio alle condizioni circostanti ed entro certi limiti per modificarle. 

Questo studio, l'ecologia, si avvale dell'idea di evoluzione biologica e nello stesso tempo contribuisce a illuminarne molti aspetti, dai più astratti ai più concreti. Non si concepisce oggi uno studio evoluzionistico senza un'analisi dei risvolti di natura ecologica e allo stesso tempo non si può impostare un'indagine di tipo ecologico se non nel quadro di un approccio evoluzionistico. Meccanismi evolutivi e fenomeni ecologici sono strettamente interdipendenti e rappresentano il nucleo concettuale della biologia sul campo, mentre evoluzionismo e genetica guidano la biologia in laboratorio. 

L'ecologia è la nuova scienza degli equilibri naturali che si è affiancata negli ultimi decenni alla genetica per guidarci alla comprensione dei cambiamenti che sono occorsi e che stanno occorrendo nel mondo vivente e nel suo rapporto con l'ambiente marino e terrestre. L'esame delle cosiddette reti alimentari o trofiche, le dinamiche di popolazione, le relazioni fra le diverse specie e fra la biomassa e i grandi cicli dell'acqua e degli elementi principali – primo fra tutti il carbonio – dominano da una parte gli studi teorici e dall'altra le considerazioni pratiche necessarie per sviluppare quelle politiche per l'ambiente che abbiano una base scientifica. 

Dominante su tutto questo è la consapevolezza che quella umana è comunque una specie vivente che ha le sue esigenze, i suoi bilanci e che potrebbe anche soffrirne fino ad arrivare a estinguersi. >>

EDOARDO BONCINELLI
 

(continua)