venerdì 8 gennaio 2021

I limiti del pensiero scientifico

Sembra provato che la natura, nel corso dell’evoluzione, ci abbia dotato di una predisposizione agli errori di valutazione, perchè, in certe situazioni (soprattutto ancestrali), ciò determinava un vantaggio evolutivo. Un secondo livello di errori è derivato dalle manipolazioni culturali messe in atto in campo sociale per assicurare il funzionamento della collettività.

Questi limiti nella comprensione del mondo, che restavano evidenti, vennero indagati nei secoli dai filosofi e dai pensatori, in un processo intellettuale culminato nel c.d. ‘pensiero scientifico’. Il quale, però, mentre da una parte facilitava la comprensione oggettiva del mondo, generava una serie di problemi culturali di non facile soluzione.

Di queste contraddizioni ci parla Marco Pierfranceschi nel post di oggi, tratto dal suo blog Mammifero Bipede. 

LUMEN


<< Descritto in maniera rudimentale, il pensiero scientifico afferma che, una volta definiti con precisione tutti gli elementi di un esperimento, questo può essere riprodotto ed il risultato deve essere indipendente dall’osservatore che vi assiste. Questo processo ha lo scopo di individuare gli elementi propri della ‘realtà oggettiva’, separandoli dalle interpretazioni soggettive, arbitrarie e fallaci.

Il pensiero scientifico ha dimostrato una straordinaria efficacia nel consentirci di approfondire la conoscenza del mondo, ed ha favorito un incredibile sviluppo tecnologico. Tuttavia, in quanto pensiero razionale, mal si concilia con l’ambito dell’irrazionale che ancora permea le organizzazioni sociali umane.

Se infatti si possono individuare facilmente meccanismi di causa-effetto nel mondo fisico, altrettanto non è possibile per le scienze umane, perché gli imperativi biologici non hanno né una necessità né un fondamento razionale.

I corpi celesti si muovono in orbite definite dalla propria massa e velocità relative, e non possono fare altrimenti perché regolati unicamente da relazioni fisiche di natura meccanico-gravitazionale. Per contro, l’istinto di sopravvivenza degli esseri viventi non risponde ad alcun obbligo di natura fisico-meccanica, ma discende unicamente dal fatto che i processi evolutivi, e la stessa sopravvivenza, hanno avuto efficacia solo sugli individui che erano portatori di tale istinto.

Il pensiero scientifico può maneggiare con facilità processi fisico-meccanici che hanno cause ed effetti facilmente individuabili, non altrettanto i processi legati alle attività degli organismi biologici, in cui le cause (reali e percepite), gli effetti (desiderati e praticati) e il processo mentale stesso, sfuggono ad un’analisi puntuale.

O, per dirla in altri termini, le informazioni necessarie e a riprodurre l’esperimento sono moltissime ed in larga parte indisponibili ed irriproducibili.

In conseguenza di ciò, mentre abbiamo modelli della materia sufficientemente affidabili da consentirci di costruire macchine straordinarie (pensiamo ai microprocessori, che da strumenti di calcolo e comunicazione sono diventati in pratica estensioni di noi stessi), non abbiamo modelli del comportamento umano tali da consentirci di anticipare le risposte delle diverse collettività all’introduzione di nuovi elementi di natura sociale e culturale.

Per questo manca anche un modello ‘scientifico’ di organizzazione politica condiviso e collettivamente accettato dalle diverse culture umane, ed ogni gruppo sociale sviluppa al proprio interno consuetudini, abitudini e relazioni, di norma mantenendo una piattaforma condivisa per quanto riguarda i comportamenti da tenere in pubblico (il corpus legislativo), e lasciando maggior libertà per quanto avviene nell’ambito privato.

Come già detto, mettere in discussione la cultura di una società umana non è impossibile: si possono ragionare le incongruenze, risalire alle relazioni di causa-effetto e ridefinirle. E tuttavia, più si procede in questa direzione, più ci si allontana dal pensiero collettivamente condiviso, col risultato che diventa vieppiù difficile trasferire ad altri questo tipo di comprensione, perché i nuovi pezzi di ragionamento proposti non si incastrano nelle vecchie architetture cognitive.

Un esempio estremo di questo tipo di situazione è rappresentato dallo sviluppo del pensiero scientifico. Quando Galileo tolse la Terra dal centro dell’Universo, la Chiesa si vide ridimensionata l’importanza della creazione divina (e mise lo scienziato sotto processo).

Quando Isaac Newton descrisse il moto dei corpi celesti in termini di equazioni e campi gravitazionali, sollevò Dio dalla necessità di provvedere al moto della sfera celeste (Newton, per sua fortuna, viveva in Inghilterra). Quando Darwin illustrò i meccanismi biologici che portano le specie viventi a trasformarsi nel corso del tempo, l’intervento divino non apparve più necessario per dar vita alla varietà del ‘creato’.

Togliere a Dio queste incombenze significò rimettere in discussione anche tutte le altre, per non dire la credibilità della Bibbia.

Le evidenze prodotte dagli scienziati sollevarono una domanda scomoda per chi, fino a quel momento, aveva posto Dio al centro dell’Universo, creatore ed artefice dei destini del mondo: se non c’è più nulla che richieda l’intervento divino, a che serve Dio? La chiesa aggiornò l’ambito di competenza della divinità al mondo ultraterreno, nondimeno per gli individui animati da uno spirito religioso questo rappresentò un grosso scossone.

L’avvento del pensiero scientifico obbligò buona parte dell’umanità a ragionare la realtà in maniera completamente diversa da come era stata descritta per secoli dal pensiero religioso. Impose relazioni di causa-effetto al posto dell’arbitrio divino, eliminò ogni tesi a supporto dell’esistenza di una vita oltre la morte, fece tabula rasa di buona parte dell’autorità della casta sacerdotale e del potere, anche temporale, di cui quest’ultima godeva. (...)

Ma non è possibile una reale comprensione reciproca tra persone che non condividono un sufficiente background. Più ci si allontana da quella che è la base culturale condivisa, più faticoso e spesso infruttuoso diventa trasferire nozioni e descrizioni sistemiche a persone che non hanno le strutture mentali adatte ad accogliere ed integrare tali informazioni. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

2 commenti:

  1. COMMENTO DI GPVALLA56:

    Interssante l'articolo, soprattutto per le considerazioni sulla possibile incomunicabilità fra le culture.
    In realtà mi pare che sia impossibile ipotizzare un confronto "scientifico" fra le culture per stabilire quale sia migliore (o come debba essere quella ottimale):
    Il metodo scientifico riguarda la conoscenza, il confronto fra le culture coinvolge i valori e gli interessi rilevanti all'interno delle stesse (e dei singoli gruppi/ classi sociali) e non si può neppure immaginare un esperimento per stabilire (per esempio, alla grossa) se sia migliore il patriottismo o la globalizzazione, il collettivismo o il liberalismo.
    Certo possono essere sottoposti al metodo scientifico e all'analisi storica certi presupposti più o meno mitologici alla base di molte culture, ma - anche quando tali presupposti risultano evidentemente insostenibili - le culture continuano a sussistere, magari a costo di palesi dissonanze cognitive: ricordo la vecchia battuta secondo la quale solo il 40% degli ebrei crede alla esistenza di Dio, ma che il 95% è comunque sicuro che Dio li abbia scelto come popolo eletto e dato loro per sempre la Palestina...

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    1. Caro Beppe,
      bellissima la battuta sugli ebrei e la terra promessa (che non conoscevo).
      Non escludo che il paradosso venga addirittura da loro stessi, visto che - al di là di tutto - sono dotati di una notevole auto-ironia.
      Sull'umorismo ebraico avevo addirittura fatto un post (settembre 2015), che contiene alcune storielle davvero spassose.

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