venerdì 11 dicembre 2020

Il controllo dell'aggressività umana

Torno sull'argomento, già affrontato più volte ma sempre interessante, dell'aggressività umana, uno degli aspetti in cui appare più evidente (e destabilizzante) la dicotomia tra le spinte genetiche ancestrali e le esigenze culturali della vita di oggi.

Il post è opera di Marco Pierfranceschi ed è tratto dal suo blog Mammifero Bipede.

LUMEN


<< È indubbio che l’abbandono della vita nomade, basata su caccia e raccolta, in favore di un’esistenza stanziale fondata su agricoltura, allevamento ed artigianato, abbia richiesto una importante rimodulazione nelle reazioni istintive dove (...) risultano fortemente coinvolti i meccanismi di autocontrollo e gestione dell’aggressività.

I nostri lontani antenati, adattati alla vita selvatica, avevano necessità di sviluppare abilità diverse dagli individui attuali. La vita all’aria aperta basata su caccia e raccolta, legata al nomadismo che portava ad esplorare luoghi sempre diversi, traeva vantaggio dalla capacità di processare numerosi stimoli contemporaneamente (...). Parimenti utile doveva essere l’attitudine a reagire istintivamente, ed in fretta, ad un pericolo imprevisto.

Un diverso equilibrio tra reazioni istintive e azioni ponderate (ovvero mediate dal pensiero analitico e dai meccanismi di autocontrollo) potrebbe di fatto aver rappresentato la normalità nelle popolazioni del passato. (...) Una condizione destinata a cambiare con lo sviluppo delle pratiche agricole e dell’allevamento, che ha finito col determinare la transizione dallo stile di vita nomade alla stanzialità.

L’adattamento a svolgere mestieri monotoni e ripetitivi ha facilitato l’avvento di individui con tipicità caratteriali completamente diverse da quelle richieste, ad esempio, in una battuta di caccia. Il percorso umano e culturale che ha portato i nostri antenati dal nomadismo delle piccole tribù di cacciatori/raccoglitori alle megalopoli attuali ha obbligato lo sviluppo dei processi mentali legati all’autocontrollo, sia dei pensieri che degli istinti.

In natura, l’occasionale prossimità fra individui sconosciuti della stessa specie è fonte di stress e frequente causa di reazioni aggressive. Con la crescita della popolazione e l’evoluzione dei villaggi in città, il processo di inurbamento ha imposto condizioni di stretta contiguità con una moltitudine di altri individui, richiedendo lo sviluppo di modalità di contenimento delle reazioni più immediate e brutali in favore di interazioni più controllate sotto il profilo emozionale.

La trasformazione delle società umane ha reso la coesistenza fra sconosciuti un fatto frequente, cosa che ha richiesto la compensazione dei preesistenti meccanismi di stress mediante articolazioni mentali in grado di sopprimerli. La transizione, dai rapporti di tipo familiare tipici di una piccola tribù, ad un contesto relazionale esteso, ha richiesto un potenziamento delle capacità individuali di autocontrollo.

Le moderne neuroscienze sono oggi in grado di individuare le strutture cerebrali responsabili del nostro autocontrollo, e quantificarne l’attività ed il livello di funzionalità. Possiamo immaginare come, nell’arco di millenni, queste strutture possano essersi evolute per consentirci di prosperare nel mutato scenario prodotto dall’ascesa delle città e del ruolo da esse svolto nel governo del mondo.

Tuttavia, dati i tempi molto rapidi richiesti da questi adattamenti, nell’ordine di pochi millenni, non si può attribuire tale trasformazione ad una effettiva evoluzione della specie Homo Sapiens, quanto ad un adattamento per accumulo di fattori di natura epigenetica.

I tempi necessari alla propagazione di una modifica di natura genetica sono infatti lunghissimi, ma i geni sono solo una piccola parte del nostro DNA. Una parte ben più consistente è demandata a controllarne l’espressione. L’epigenetica studia le trasformazioni in queste porzioni di DNA.

Rispetto alle mutazioni genetiche, i meccanismi epigenetici consentono, ad individui e popolazioni, di rispondere con prontezza a mutamenti consistenti nell’ambiente, garantendo la sopravvivenza in situazioni in rapida trasformazione. I caratteri acquisiti possono poi, col tempo, fissarsi in una nuova specie, o regredire, nel caso in cui dovessero ripristinarsi le condizioni originarie.

Questo significa che il contesto ambientale può influenzare l’insorgere o meno di determinate caratteristiche negli individui, che queste caratteristiche possono fissarsi ed essere conservate ed è documentato come queste modifiche adattive possono essere trasmesse alla discendenza. È un po’ un rientrare dalla finestra delle idee di Lamarck, dopo che il criterio evolutivo suggerito da Darwin, basato sulla selezione naturale, le aveva buttate fuori dalla porta. (...)

In un lontano passato, i caratteri di curiosità ed irruenza, attualmente tipici dell’età giovanile, venivano preservati negli individui adulti perché funzionali ad una vita nomade basata su caccia e raccolta. Il progressivo inurbamento ha favorito un contenimento generalizzato delle reazioni più istintive e brutali, ma la rapidità richiesta ha attivato processi epigenetici, che non sono né infallibili né irreversibili.

L’occasionale riemergere di tali caratteri arcaici non deve sorprendere in assoluto, e ancor meno deve stupire che ciò avvenga contesti sociali degradati, caratterizzati da modalità relazionali basate sulla sopraffazione e sull’uso diffuso della violenza.

Negli individui cresciuti in condizioni di precarietà affettiva e sociale, elevato stress emotivo, difficoltà economiche e relazionali, i meccanismi di autocontrollo faticano a svilupparsi e fissarsi, e questo è un dato che ci viene confermato dagli studi sui maltrattamenti infantili. Una volta che tali circuiti mentali disfunzionali finiscono col fissarsi nell’individuo adulto, risulta per quest’ultimo più complicato riuscire a sviluppare un soddisfacente equilibrio relazionale. (...)

[Come] affermato da Daniel Goleman nel suo saggio sull'intelligenza emotiva (cito a memoria): “le abilità che non vengono apprese nei primi anni di vita possono essere perse per sempre, o il loro recupero risultare in seguito molto faticoso e nel complesso solo parziale”.

Un individuo penalizzato in gioventù nello sviluppo delle funzioni di autocontrollo avrà una elevata probabilità di diventare un adulto fortemente incline alle reazioni violente ed al rischio di dipendenza da sostanze psicotrope. (…)

Sempre Goleman, in “Intelligenza sociale, afferma che le esperienze traumatiche sperimentate nelle prime fasi della crescita non si limitano a formare un bagaglio culturale, potenzialmente reversibile, ma alterano in permanenza le strutture cerebrali, tanto da rendere ogni successivo tentativo di recupero difficoltoso ed a rischio di insuccessi.

Quindi, non solo dovremmo rivolgere maggior attenzione agli anni dello sviluppo, per evitare che situazioni traumatiche fissino nei giovani modalità relazionali disfunzionali, potenzialmente nocive per sé e per gli altri, ma dovremmo ampliare gli sforzi per consentire ad individui già ‘danneggiati’ un inserimento sociale adeguato, tenendo conto delle limitazioni loro derivanti da meccanismi mentali, di autocontrollo e non solo, potenzialmente compromessi.

In primo luogo andrebbe estesa la consapevolezza delle problematiche legate ad attenzione ed autocontrollo, affinché i portatori possano esserne pienamente consapevoli ed indirizzare al meglio le proprie scelte di vita lavorative e relazionali. Tale consapevolezza andrebbe quindi integrata nel percorso formativo, dalle famiglie alle istituzioni scolastiche, In modo da poter intervenire tempestivamente ove necessario. Da ultimo dovrebbe obbligarci a ripensare la funzione dell’istituzione carceraria.

Perché se quest’ultima deve essere mirata, come nelle formali intenzioni, al recupero e reinserimento nella società civile degli individui che ‘hanno sbagliato’, gli sforzi da impiegare non potranno limitarsi alla detenzione, ma muovere dall’assunto che molte delle persone responsabili di atti incontrollati e violenti risultano già in partenza ‘danneggiate’, ed hanno necessità di terapie sociali, culturali ed emotive, mirate e profonde.

Uno degli assunti fondamentali delle società umane è l’idea che la collettività possa funzionare grazie ad un unico set di regole, valide per tutti, ma ciò ha senso solo se assumiamo che i diversi individui condividano una uniformità caratteriale e relazionale. Le neuroscienze ci raccontano di differenze che possono insorgere a livello fisiologico, tali da obbligarci a rimettere in discussione questo assunto.

Più è ampio il ventaglio di diversità tra gli individui, più il sistema di regole condivise deve prevedere bilanciamenti e contrappesi perché l’equilibrio ottenuto sia funzionale. L’evidenza che, nel momento attuale, un intero ventaglio di diversità caratteriali legate alla gestione dell’autocontrollo non appaia pienamente riconosciuto, suggerisce l’evidenza di un limite strutturale all’efficacia del sistema di regole che ci governa. >>

MARCO PIERFRANCESCHI

9 commenti:

  1. A proposito del problema sollevato nell'ultimo paragrafo (l'inefficienza di regole sociali uguali per tutti), l'autore aggungeva (in un'altro post) la seguente considerazione:

    << Un domani, immagino, avremo strumenti di screening più avanzati, e saremo in grado di capire se i comportamenti anti-sociali derivano da cattiva volontà, da fattori culturali o da carenze fisiologiche nell’architettura cerebrale, ed ognuna di queste diagnosi darà luogo a differenti trattamenti.
    Oggi utilizziamo solo forme punitive, che su alcuni soggetti possono anche funzionare, ma su altri peggiorano la situazione.
    Credo che molto di questo discenda da un bias cognitivo che abbiamo tutti: il 'bias di proiezione', (per il quale) fatichiamo a pensare gli altri come differenti da noi.
    Il risultato è che facciamo ‘di tutta l’erba un fascio’, in molti casi sbagliando approccio e gestione di personalità borderline. >>

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  2. Ci sono dunque i geni ovvero il patrimonio ereditario e la cultura che può modificare almeno in parte certi comportamenti istintivi. La diffidenza verso il nuovo e il diverso è per es. istintiva, è iscritta nei nostri geni, se no rischieremmo la vita. Ci stanno però martellando da tempo che questa diffidenza è malsana, come pure gli stereotipi. Siamo tutti uguali, belli e intelligenti - anche i brutti e gli scemi. Anzi, chi parla di brutti e scemi è un troglodita, razzista e fascista (anche sovranista che è il peggio del peggio). Però hanno tutti la mano sul portafoglio, anche il papa.
    Io invece sono per una sana diffidenza che può essere superata col tempo. Col tempo, natura non facit saltum. Gli americani sono gente alla mano, ci dicono, ti danno del tu e ti offrono subito amicizia. Sarà. Sarà verosimilmente un'amicizia da poco.

    È chiaro che in società ci vogliono regole per convivere, regole che limitano la nostra sovranità individuale. Le regole hanno fatto progredire le società e l'umanità (con incidenti di percorso anche gravi). La società investe somme inaudite per civilizzare il sapiens sapiens, operazione che però non riesce sempre (per via di quei maledetti geni, dell'istinto). Invece un intervento diretto sul patrimonio ereditario faciliterebbe le cose, renderebbe questo sapiens sapiens, sempre troppo aggressivo, una mammoletta e s'instaurerebbe finalmente la pace perpetua. E adesso siamo davvero in grado di modificare quel patrimonio. K. Lorenz diceva che l'anello mancante tra la scimmia e l'uomo è proprio l'attuale sapiens sapiens: l'uomo come lo idealizziamo non è ancora nato. Ma il sapiens sapiens (brutto, sporco e cattivo) ha i giorni o i secoli contati grazie alla scienza.

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    1. << un intervento diretto sul patrimonio ereditario faciliterebbe le cose >>

      Caro Sergio, ovviamente queste sono cose troppo pericolose e non posso certo augurarmi una cosa simile.
      Ma il problema è che, cullandoci nell'illusione che con la cultura si possa raddrizzare qualsiasi stortura, non stiamo facendo nulla per affrontare i nostri istinti aggressivi.
      Ed invece qualcosa sarebbe possibile fare, adattando le regole sociali alle diverse situazioni genetiche in cui si trovano le varie persone.

      Ma per fare questo dovemmo abbandonare l'assunto che gli uomini sono tutti uguali ed accettare la dura verità che sono tutti diversi.
      Così, abbiamo quella cosa bellissima che sono i diritti umani, e nello stesso tempo un diritto penale che funziona molto male, soprattutto a livello di prevenzione.
      Ce ne dovremo fare una ragione.

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    2. "Ma per fare questo dovemmo abbandonare l'assunto che gli uomini sono tutti uguali ed accettare la dura verità che sono tutti diversi.
      Così, abbiamo quella cosa bellissima che sono i diritti umani, e nello stesso tempo un diritto penale che funziona molto male, soprattutto a livello di prevenzione."

      Ma così una società non può funzionare. Mi riferisco anche agli ultimi due paragrafi del testo di Franceschetti. Non è vero che siamo tutti diversi, completamente diversi. Se così fosse non potremmo interagire, comprenderci. Ci sono è vero caratteri unici (vedi le impronte digitali), ma poi condividiamo con gli altri tantissime altre cose che permettono appunto di relazionarsi, intendersi. Mettere l'accento come si fa ora su cosa fa di noi esseri unici, non intercambiabili ecc. è per me fuorviante. "Dio li creò maschio e femmina": così è andata avanti la storia per millenni, anzi centinaia di migliaia di anni. Adesso ti dicono che i sessi non sono due e nemmeno dieci, non so quanti.
      I diritti umani una bellissima cosa? Va bene, ma potresti farmi una lista non dico completa ma sufficiente di tali diritti? Lo dico perché come anche tu sai sembra che ogni desiderio sia oggi un diritto, e un diritto è ovviamente un diritto umano, sacrosanto. L'uomo moderno è solo titolare di diritti. Dei doveri non si parla mai.
      La dialettica tra individuo e società è irrinunciabile. Un accordo è possibile. Poi è anche questione di mezzi, di risorse. Non si possono esaudire tutti i desideri, alcuni dei quali poi francamente ridicoli se non perversi.

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    3. << Non è vero che siamo tutti diversi, completamente diversi. Se così fosse non potremmo interagire, comprenderci. >>

      Certo, hai ragione; forse sono io che non mi sono spiegato bene.
      Io penso che gli uomini siano uguali per molte cose, MA NON PER TUTTE.
      Può darsi che queste differenze siano (statisticamente) marginali, ma ci sono e sono importanti nella convivenza sociale, soprattutto in un mondo sempre più "open".
      Dire che siamo tutti uguali 'in tutto e per tutto' non può che portare al disastro, soprattutto in campo penale, dove una prevenzione efficace si fonda sulle differenze, non sulle uniformità.
      Io sarò anche un ingenuo, ma preferisco 100 volte un delitto evitato ad un delitto punito.

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    4. È vero che alcune differenze marginali contano eccome per i singoli individui: una persona può piacerci per motivi futili per gli altri (il timbro di voce, il colore dei capelli, il ciuffo ecc. ecc.). Ma la società non può tener conto di queste cose o dar loro eccessiva importanza: non si finirebbe più, oso dire che sarebbe il caos o l'anarchia.
      In campo penale si dà la massima importanza alle attenuanti da molto tempo (da un paio di secoli addirittura). Giusto, ma fino a un certo punto. Perché se vogliamo spaccare il capello in quattro le attenuanti non si contano e per finire bisognerebbe addirittura abolire il diritto penale, visto che il libero arbitrio non esiste (come noi due pensiamo e anche Pardo - e persino Bergoglio, almeno sembra (ha infatti detto: chi sono io per giudicare - come se il fondatore dell'ordine, Ignazio di Loyola, non giudicasse).
      La necessità delle sanzioni, persino della pena di morte, è dettata dall'urgenza di agire. Secondo logica (il libero arbitrio non esiste) le sanzioni sono ingiuste, ma non abbiamo il tempo per considerare ogni minimo aspetto. Attenuanti sì, ma "con juicio".

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    5. Le attenuanti nel diritto penale sono un'arma a doppio taglio, perchè guardano troppo al passato (al reato commesso) e poco al futuro (la probabilità di commettere nuovi reati).

      Questa è una notizia recente, di pochi giorni fa, e direi che parla da sola:
      << Assolto perché incapace di intendere e volere a causa di un totale vizio di mente per "un delirio di gelosia". Si è chiuso così il processo davanti alla Corte d'Assise di Brescia a carico di Antonio Gozzini, 70enne che un anno fa in città uccise la moglie. >>

      Certo, l'età del colpevole rende improbabile un nuovo delitto, ma l'assoluzione, a mio avviso, resta una decisione giuridica inaccettabile.
      Una sentenza di condanna, anche senza carcerazione, sarebbe stata molto più corretta.

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    6. La non imputabilità per non essere in grado d'intendere e volere, come nell'esempio, è giusta (previo attento esame del caso), ma di non facile comprensione per la gente comune. Dunque la condanna non sarebbe stata corretta, giustificata invece stata la carcerazione ovvero il ricovero in psichiatria per prevenire ricadute, sempre possibili. Resta aperta la questione dei tempi del "ricovero". Da noi si è dibattuto in proposito: la legge prevede la "scarcerazione" o rimessa in libertà se ci sono le condizioni ovvero se l'ex assassino un tempo non imputabile è guarito (cosa non impossibile visti anche i progressi in medicina). Certo ci vuole prudenza, attenzione ai buonisti e idealisti che liberebbero tutti. Ci sono stati da noi due casi tragici: un assassino a passeggio con un'assistente carceraria l'ha uccisa (per un raptus, un calcolo, una vendetta contro la società - vallo sapere).

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    7. Secondo me l'incapacità di intendere e di volere rappresenta una attenuante vera (nessuna condanna, nessuna carcerazioen) solo in un caso: che la causa sia esogena, e che non sia imputabile al soggetto.

      Esempio classico: ho agito sotto l'influsso di una droga che mi è stata somministrata con la forza (o involontariamente senza mia colpa); oppure sono stato ipnotizzato, ecc.
      Se invece la causa è esogena ma riconduzbile al soggetto (mi sono drogato o mi sono ubriacato volontariamente), non deve contare come attenuante.
      E lo stesso vale se la causa è endogena: se il mio cervello, in quel momento, ha cessato di funzionare correttamente, quello resta un problema mio, non di altri.
      Magari andrò curato (con mille cautele), anzichè carcerato, ma rimango colpevole.

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