mercoledì 20 dicembre 2017

La teoria della Classe Alfa – 2

Si conclude qui il pezzo del sito Oilproject sulla teoria delle “elites politiche” ed i suoi esponenti. Lumen


(seconda parte)
 
<< L’uso del termine “élite” risale a Vilfredo Pareto, che alcuni anni dopo la pubblicazione degli “Elementi di scienza politica” di Mosca pubblica “Systèmes socialistes” (1902). Inizialmente Pareto non ambisce a elaborare un’analisi del potere politico come quella di Mosca: il suo campo di interesse primario è quello economico. 

Due questioni, tuttavia, lo conducono allo studio politologico, anzi più in generale alla sociologia: l’impossibilità di spiegare, a partire dal modello di azione economica razionale, in primo luogo i comportamenti sociali in generale ed, in secondo luogo, la distribuzione ineguale del potere tra i gruppi in particolare. Pareto affronta la prima questione separando le azioni razionali da quelle non-razionali; la seconda elaborando la sua teoria delle élites. 

La questione dell’irrazionalità dell’agire era un tema di moda nei primi anni del Novecento: oltre all’emergente psicanalisi di Sigmund Freud, le teorie di Gustave Le Bon, George Sorel e prima di loro Marx e Nietzsche rivelavano il ruolo delle emozioni e dell’irrazionalità nella politica. Anche l’economista Pareto si confronta con i limiti della teoria razionale dell’agire e li supera, categorizzando i comportamenti irrazionali come devianti rispetto al modello economico, ma, al contempo, riconoscendo loro una enorme importanza negli effettivi processi sociali. 

Pareto dedica il suo pensiero, non più di economista ma di sociologo, al compito (d’ispirazione illuministica) di elaborare un’analisi “razionale” della componente dell’agire umano rappresentata dalle azioni irrazionali, che non sono orientate da conoscenze simili a quelle proprie delle scienze logico-sperimentali. 

Le azioni irrazionali generalmente esprimono una visione fallace del rapporto tra i mezzi e i fini dell’agire, anche se generalmente gli uomini le giustificano e le rielaborano tramite ragionamenti più o meno espliciti (che Pareto chiama “derivazioni”). Le derivazioni sono estremamente variate, ma una loro analisi permette di individuare, dietro quella varietà, alcune classi di “residui” che costituiscono invece i moventi autentici (anche se spesso non consapevoli o confessati) dell’agire. (…) 

Pareto esplora questo fenomeno non solo nell’ambito, per quanto importante, del potere politico, ma più in generale dalla marcata e inevitabile diseguaglianza che caratterizza tutti gli ambiti sociali significativi, tra la minoranza dominante, costituita dalle élite, e la maggioranza dominata. L’esercizio del potere è, in altre parole, fondato sullo sfruttamento di sentimenti e atteggiamenti irrazionali – magici, rituali, non logici – da parte di minoranze dotate di abilità superiori. 

A tal proposito la teoria di Pareto si discosta da quella della classe politica di Mosca. Nella concezione antropologica da cui prende avvio la teoria paretiana, la diversità degli individui non è data dalla loro organizzazione, ma da un dato naturale che si rispecchia nella loro posizione sociale. 

In tutti i campi e in tutte le situazioni storiche esistono, allora, gerarchie sociali al vertice delle quali stanno le élite, cioè coloro che dimostrano, attraverso il loro successo, le loro superiori capacità nei rispettivi campi di attività. È anche per questo che generalmente si forma una distinzione fra élite le politiche, quelle economiche e quelle intellettuali. Le élite governanti, inoltre, si distinguono in “volpi” e “leoni”, a seconda che utilizzino il consenso o la forza per esercitare il potere. 

Benché il dominio dei pochi sui molti sia una realtà politica immodificabile, le élites devono rinnovarsi per poter conservare il potere. La regola della “circolazione delle élites”, secondo cui le classi elette devono alternarsi o modificarsi internamente ammettendo l’ingresso di elementi delle classi dominate, permette alla società di mantenere un equilibrio dinamico e di non andare incontro a un processo di decadenza. 

Questo principio svolge un ruolo centrale nell’intera dinamica storica; secondo Pareto, infatti, la storia tutta intera può essere considerata come un “cimitero di aristocrazie”. 

Robert Michels rielabora in modo originale la teoria della classe politica di Mosca conducendo uno studio empirico esemplare sulle strutture organizzative di partiti e sindacati, nonché (come risulta da molteplici studi successivi) su altre organizzazioni “volontarie”. Amico e allievo di Max Weber, con cui scambia una fitta corrispondenza, egli rivela i meccanismi che trasformano qualsiasi organizzazione in una macchina burocratica al servizio delle finalità del gruppo dirigente. 

Per testare la sua ipotesi, secondo cui l’organizzazione crea fatalmente l’oligarchia – la cosiddetta “legge ferrea dell’oligarchia” –, lo studioso di Colonia analizza uno dei più famosi e grandi partiti socialdemocratici europei, la SPD tedesca. È significativa la sua scelta, sia perché Michels all’inizio della sua carriera, è un attivo militante di quel partito, sia per la dottrina egualitaria che caratterizza l’SPD. 

Nella sua “Sociologia del partito politico” (1911) Michels dimostra la sua tesi secondo la quale “chi dice organizzazione dice tendenza all’oligarchia”, indicando le ragioni di questo complesso fenomeno e delineando le fasi del processo in cui avvengono l’instaurazione e il consolidamento dell’élite dirigente. La necessità di ricorrere all’organizzazione, insieme con la particolare “psicologia delle masse” e la psicologia dei leaders politici, determina il processo di trasformazione del partito in una struttura verticistica, nella quale pochi comandano sulla maggioranza. 

L’organizzazione [però] muta la sua funzione solo gradualmente. Nella prima fase la canalizzazione e definizione degli interessi degli elettori dà origine alla formazione di un’élite interna, la quale, in un secondo momento, si articola selezionando un corpo più o meno ampio di personale amministrativo, e assegnandogli compiti e risorse che progressivamente lo distingue dai politici eletti dalla base. 

Questo processo di burocratizzazione e la formazione di un gruppo dirigente inamovibile, che si appropria della delega conferita dagli elettori e gestisce le risorse materiali e simboliche del partito, conducono alla terza fase della trasformazione. In essa il gruppo dirigente si isola dagli elettori e conduce il partito a deviare dai propri scopi: sostituzione dei fini. 

A questo punto l’effettiva finalità del Partito (SPD), per quanto mascherata dal richiamo retorico al suo messaggio ideologico, è la realizzazione non più degli interessi dei suoi membri, bensì di quelli dell’élite gelosa del proprio potere. In questo modo “l’organizzazione, da mezzo per raggiungere uno scopo, diviene fine a se stessa. L’organo finisce per prevalere sull’organismo [...] Suprema legge del partito diviene la tendenza a eliminare tutto ciò che potrebbe fermare il meccanismo e minacciare così la sua forma esteriore, l’organizzazione”. 

Insomma, anche un partito rivoluzionario e fondato idealmente sulla partecipazione dei militanti si trasforma in una grande macchina burocratica, il cui scopo è la conservazione e l’accrescimento del potere del suo gruppo dominante. >>

OILPROJECT

23 commenti:

  1. Ecco tre perle di "sincerità involontaria" delle nostre attuali elites europee:

    GIULIANO AMATO: << Non penso che sia una buona idea rimpiazzare questo metodo lento ed efficace - che solleva gli Stati nazionali dall'ansia mentre vengono privati del potere - con grandi balzi istituzionali.
    Perciò preferisco andare lentamente, frantumando i pezzi di sovranità poco a poco, evitando brusche transizioni dal potere nazionale a quello federale. Questo è il modo in cui ritengo che dovremo costruire le politiche comuni europee. >>

    JEAN MONNET << le nazioni dell'Europa dovrebbero essere guidate verso il superstato senza che i loro popoli sappiano cosa sta accadendo.
    Ciò si può ottenere tramite passi successivi, ognuno mascherato da uno scopo economico, ma che porterà alla fine e irreversibilmente alla federazione​. >>

    JEAN-CLAUDE JUNKER: << Noi prendiamo una decisione in una stanza, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo di vedere cosa succede.
    Se non provoca proteste o rivolte, è perché la maggior parte delle persone non ha idea di ciò che è stato deciso; allora noi andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno. >>

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    1. Sinceramente, ho l'impressione che il superstato europeo sia lo strumento delle elite degli stati nazionali e delle lobby nazionali piu' potenti per aumentare il loro potere sui cittadini, e non il contrario. Finora il "lo dice l'europa" e' stato usato sempre e solo cosi', specie nel nostro paese.
      Le regolamentazioni stupide, inutili e oppressive, utili solo a esibire potere e autoritarismo, sono frutto di lobby nazionali furbe, forti e organizzate che curano loro ben precisi interessi economici e di potere, riuscendo altresi' a deviare altrove, su uno "straw man", le loro responsabilita' (l'europa appunto).
      Il cittadino europeo non esiste, come dimostra la recente reazione di rigetto senza contraddittorio dei vertici di bruxelles di fronte alla banale richiesta dei catalani di _restare_ cittadini europei da catalani invece che da spagnoli. Bruxelles in questo modo ha perso la sua occasione storica ben peggio di quanto la catalogna abbia perso la propria.

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    2. << Bruxelles in questo modo ha perso la sua occasione storica ben peggio di quanto la catalogna abbia perso la propria. >>

      Sono d'accorso.
      Quella della Catalogna è, in fondo, una storia triste, in cui hanno perso tutti.
      Ma, forse, solo a livello di immagine, perchè tra una Catalogna indipendente, ma sempre ben dentro la UE, e la situazione attuale, non vedo poi tutta questa differenza.

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    3. Io invece ci vedo una differenza enorme, perche' si tratterebbe di una UE in conflitto con gli stati nazionali per difendere le liberta' del cittadino, cioe' una situazione all'estremo opposto di adesso, che la UE e' uno strumento degli stati nazionali per opprimere ancora di piu' i cittadini senza assumersene la responsabilita'. Certo questa mia opinione e' opposta a quella dei vari neofascionazionalismi di sinistra e di destra che sono tornati di moda moda fra gli orfani delle ideologie del '900.
      In ogni caso, i grandi stati nazionali tipo l'italia sono delle finzioni giuridiche non meno di un'eventuale SuperStato centralistico europeo, non sono mai stati coesi, e riescono a sopravvivere solo grazie a un massiccio impiego della forza, attraverso l'enorme potere di ricatto delle loro polizie fiscali.

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    4. Allora occorre fare una precisazione: quello che farebbe la differenza non sarebbe tanto il diverso status della Catalogna (che potrebbe anche essere ottenuto bonariamente con una trattativa con Madrid), ma l'eventuale discesa in campo della UE al suo fianco.
      Ma alla UE, astutamente, preferiscono fare i pesci in barile.

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    5. "ma l'eventuale discesa in campo della UE al suo fianco"

      Diciamo che avrebbe dovuto proporsi come arbitro: nel momento in cui ha dichiarato, invece, che si tratta di affari interni della spagna e che la sua indissolubita' e' fuori discussione, ha preso implicitamente e drasticamente partito CONTRO le istanze catalane e CONTRO i cittadini catalani che in verita' sono anche suoi cittadini europei, i quali in fin dei conti chiedevano chiaramente di essere soprattutto cittadini europei eliminando un grado di intermediazione per loro ormai disutile e anacronistico: la spagna.

      Un ennesimo errore imperdonabile, assurdo, da parte della UE, un'occasione storica gettata alle ortiche, dopo tante idiozie burocratico-autoritarie, tipo il calibro del cetriolo, la curvatura delle banane e le valvole termostatiche obbligatorie. In italia, l'unica cosa utile e giusta che abbiamo finora ricevuto dalla UE, e' l'obbligo per il nostro stato di abolire quel documento paleosovietico e primitivo, tipico del nostro ordinamento fiscale che era la bolla di accompagnamento (trasformata in "documento di trasporto"...).

      Se fosse vero, come io credo, che non e' possibile fare l'europa altrimenti che passando attraverso una dissoluzione dei troppo grandi stati nazionali di fatto imperialisti verso le loro componenti interne AVO che gia' contengono (italia e spagna soprattutto, ma anche germania specie dopo la riunificazione), questo atteggiamento di bruxelles e' politicamente cieco, stupido e autolesionista.

      Un chiaro esempio di come possa funzionare (secondo me l'unico) un'europa unita lo abbiamo al suo centro da quasi due secoli, e' la svizzera coi suoi 24 cantoni confederati dotati di amplissime autonomie, dove convivono in pace e prosperita' i tre gruppi linguistici altrove in continua guerra fra di loro da millenni. E la sua moneta unica... che quindi non e' vero che e' impossibile come alcuni ideologi postfascisti e postcomunisti sostengono: lo e' forse negli ordinamenti postfascisti e postcomunisti, ma non in quelli liberali, anzi.

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    6. Certamente, quello svizzero è un bellissimo esempio di unità nella diversità, che funziona a meraviglia.
      Non so però quanto sia esportabile o resti piuttosto un unicum.
      Qui ci vorrebbe la testimonianza "in loco" di Sergio, ma temo che in questo periodo abbia qualche difficoltà di connessione.

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    7. Sergio mi pare fosse stato abbastanza chiaro quando ha espresso il suo disappunto per il cedimento della svizzera, perlomeno dal punto di vista economico-legislativo-normativo, verso il modello di democrazia di massa / dittatura uniformante della maggioranza tipica del nostro paese e degli altri stati occidentali. Se sbaglio puo' correggermi.

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    8. Da questo momento sono di nuovo connesso, ma ahimè sono in completo disarmo, mi è passata ogni voglia di leggere, informarmi e magari commentare.
      Quanto alla Svizzera, sì, funziona abbastanza bene (ma se chiedete alla sinistra socialdemocratica o all'estrema sinistra - esiste anche questa - le cose vanno malissimo, siamo alla frutta, abbiamo qualcosa come mezzo milione di poveri su 8,5 mln di abitanti).
      Comunque è vero che il sistema federale elvetico potrebbe essere effettivamente un modello per l'UE. I 23 cantoni sono staterelli che si sono confederati mantenendo ampia autonomia, come scrive Diaz. Altrettanto potrebbero fare gli Stati europei. Il modello della cosiddetta democrazia diretta penso però possa funzionare solo in uno staterello come la Svizzera, grande più o meno come la Lombardia. Con le iniziative popolari (referedum propositivi) gli Svizzeri modificano continuamente la costituzione, cosa inconcepibile altrove. La democrazia diretta è vista come il fumo negli occhi a Bruxelles, ma anche in Italia (il Foglio la ridicolizza continuamente). Però in Austria e anche in Germania la democrazia diretta piace a non pochi. I politici svizzeri, governo compreso, sono continuamente sotto tiro da parte dell'elettorato che può abrogare leggi del parlamento (referendum abrogativo), confermarle (è necessario per certe leggi) e addirittura richiedere modifiche costituzionali. Il risultato però non è la paralisi, ma la necessità di compromessi. Del resto da mezzo secolo abbiamo la grosse Koalition anche in Svizzera: i sette ministri, esponenti dei quattro maggiori partiti, devono limare e limare per presentare poi leggi che possano essere approvate dal parlamento, ma poi abrogate dagli elettori (dopo la raccolta di un numero adeguato di firme, 50'000 per un referendum, 100'000 per un'iniziativa popolare con modifica costituzionale - sono poche se si considera che la Svizzera è passata dai circa 5 mln di abitanti del dopoguerra agli attuali 8,5 mln).

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    9. Grazie Sergio, per il tuo intervento.
      Ho l'impressione che le dimensioni, in campo geo-politico, contino, eccome.
      E che quindi quello che è stato possibile in Svizzera, potrebbe essere (forse) possibile altrove in pari scala, ma non certo per un intero continente, come è l'Europa o è stato a suo tempo l'URSS.
      E gli USA, direte voi ?
      Non sono un continente ?
      Sì, ma la loro storia è molto diversa e poi forso sono solo l'eccezione che conferma la regola.

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    10. "le dimensioni, in campo geo-politico, contano"

      Non le dimensioni, l'uniformita' culturale. La svizzera e' appunto riuscita a trovare, magari per caso, un modello istituzionale in cui si sposano i vantaggi della piccola dimensione (nei suoi 24 cantoni) con quelli della dimensione piu' grande (coi suoi 8 milioni di abitanti essa ha la dimensione di un medio stato europeo pero' con piu' problemi di quelli che ha uno molto piu' grande, viste le almeno tre lingue e tradizioni culturali, normalmente irriducibili, in essa presenti - e anche in questo MOLTO simile all'italia).

      I grandi stati-nazione europei sono invece delle accozzaglie tenute insieme con la forza e/o con l'esaltamento nazionalistico necessariamente "contro" il resto del mondo, il che e' incompatibile con la "a parole" pretesa civilta' europea.

      Pretendere di uniformare sotto la stessa legge culture e tradizioni tanto diverse e' possibile se ci si accontenta di normare e legiferare solo gli aspetti comuni alle varie culture e tradizioni, per andare oltre si deve necessariamente ricorrere alla forza e alla vessazione, esattamente come e' accaduto nel nostro disgraziato stato-nazione, l'italia, dall'unita' in poi, che fra l'altro ha avuto la prontezza di unirsi, in modalita' imperial-piemontese, proprio quando l'eta' dei grandi imperi europei stava per terminare, fra grandi fuochi d'artificio, con le due grandi guerre civili europee, estese al mondo.

      Per quanto riguarda il problema della democrazia diretta o rappresentativa, il nostro paese non si scontra solo con le enormi diversita' culturali in esso presenti che lo rendono difficile da governare in modo centralistico-unitario come se fosse grande mezzo orbe terracqueo: c'e' pure il problema delll'estrema ignoranza del popolo, che era in gran parte superstizioso e analfabeta fino a due sole due generazioni fa. Di fronte a tanta ignoranza era necessario almeno tentare di filtrare la classe dirigente attraverso vari livelli elettivi. Con la democrazia diretta invece va al potere, comunale o nazionale, il bullo del quartiere (che e' cio' che sta gia' avvenendo con la cosiddetta personalizzazione della politica - ritorno non al localismo ma al feudalesimo e alla signoria).

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    11. "E gli USA, direte voi?
      Non sono un continente?"

      Gli usa sono forse il paese con l'ordinamento piu' simile a quello svizzero: un enorme grado di autogoverno locale, e uno stato federale che si occupa solo di difesa, moneta, e rapporti di potenza con l'estero. In comune con la svizzera hanno anche un'altra eccezionalita' invisa all'europeo medio e soprattutto al suo governo: la milizia armata di popolo.

      Noi europei, quando pensiamo agli Usa e al loro ordinamento istituzionale, dimentichiamo spesso che il presidente degli usa ha molto piu' potere su di noi europei e sul resto del mondo che sui suoi concittadini, verso i quali il suo potere e' quasi nullo. E pensiamo, disgraziati, che dando al nostro presidente del consiglio sui suoi concittadini gli stessi poteri che ha quello Usa sul resto del mondo esclusi i suoi concittadini, diventeremo come loro.

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    12. << il presidente degli usa ha molto piu' potere su di noi europei e sul resto del mondo che sui suoi concittadini >>

      Una considerazione un po' paradossale, ma che condivido.

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    13. Non e' paradossale, il compito del governo federale gia' in origine era di occuparsi soprattutto dei rapporti con l'esterno alla (con)federazione (difesa e guerra comprese).
      Il paradosso c'e' solo per quelli che credono che il governo debba occuparsi di tutto: ma gli Usa sono nati con la convinzione opposta.

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    14. Amato, Monnet, Juncker

      Sono ormai immortali le affermazioni di Juncker, fatte probabilmente dopo una sbornia e di cui sicuramente si sarà pentito (dicono che Juncker sia un ubriacone).

      Non conoscevo invece quelle di Amato e Monnet che dicono in sostanza la stessa cosa e che mi scandalizzano. In pratica dicono che bisogna metterglielo in quel posto ai fessi europei senza che se ne accorgano. Perché accorgendosene potrebbero anche non gradire e protestare. Invece procedendo con cautela saranno presi nella rete da cui non potranno più liberarsi. Vedi l'euro che per Draghi è irreversibile (ha chiesto il parere dei cittadini europei?). E quanti hanno letto studiato e capito la costituzione europea, bocciata da Francia e Olanda, ma riproposta tale e quale con un altro nome, Trattato di Lisbona, un documento illeggibile che non hanno letto nemmeno i nostri rappresentanti che l'hanno votato (visto che viviamo in una democrazia rappresentativa, non diretta). Ma un minimo si potrà pure attendere dai nostri rappresentanti.

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    15. "In pratica dicono che bisogna metterglielo in quel posto ai fessi europei senza che se ne accorgano"

      Puo' anche darsi, ma finora a metterglielo "in quel posto", e non virtualmente ma praticamente e profondamente, sono stati quelli che sostenevano tesi opposte ai suddetti, in tempi storici e recenti. Per cui non mi assillerei maniacalmente piu' di tanto, preso per preso. Non ci riesco personalmente in pratica, ma penso che l'atto piu rivoluzionario sarebbe mandarli a cagare tutti, loro con le rispettive manie e fissazioni.

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    16. << Vedi l'euro che per Draghi è irreversibile (ha chiesto il parere dei cittadini europei?). >>

      Caro Sergio, le norme che regolano le strutture europee (sia politiche che economiche) sono talmente complesse che anche in caso di referendum non so quanta gente potrebbe votare con cognizione di causa.
      Si andrebbe probabilmente per slogan, come peraltro succede spesso.

      Io penso che se avessero fatto un referendum sulla UE al momento giusto, l'Italia avrebbe detto sì e poi avrebbero potuto vivere di rendita.
      Oggi invece, probabilmente, diremmo di no, perchè sentiamo di stare peggio, ma ormai nessuno più si sogna di chiedere il giudizio popolare.

      Nel Regno Unito hanno avuto il coraggio di proporre la Brexit, la buona sorte di vincerla e la serietà di metterla in pratica.
      Ma credo che si tratti, sostanzialmente, di una eccezione.

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  2. Potrà magari interessare che la costituzione svizzera del 1848 fu copiata da quella americana! Anche in Svizzera lo Stato centrale si occupava di pochissime cose, anzi della sola difesa nazionale: percepiva infatti solo la cosiddetta tassa per la difesa (Wehrsteuer), ovviamente anche dai lavoratori stranieri che se ne risentivano (come se gli stranieri non dovessero pagare anche loro le tasse). Oggi i compiti dello Stato si sono molto estesi anche qui (e la tassa federale non si chiama più Wehrsteuer!).
    Quanto alle differenze linguistiche e culturali non mi sembrano tanto forti e divisive. Certo Ticinesi, romandi e svizzero-tedeschi non si capiscono sempre e bene (gli svizzeri tedeschi il francese imparato a scuola se lo dimenticano e i romandi non vogliono capire che la lingua materna degli svizzero-tedeschi non è il tedesco ma lo svizzero-tedesco con molte varianti regionali). In parlamento ciascuno può esprimersi nella sua lingua, ma l'italiano si sente poco ed è meglio parlare la lingua della maggioranza, il tedesco, se si vuol essere ascoltati).
    In occasione delle elezioni c'è anche spesso una spaccatura tra la Svizzera latina e quella tedesca; quella latina è più socialista e statalista. È stata coniata anche un'espressione buffa per indicare questa spaccatura: tra Romandia e Svizzeri tedeschi si apre il "Röstigraben", il fossato della Rösti, una gustosa pietanza di patate tipica del nord (ma apprezzatissima anche in Ticino).
    Ma ripeto, tra svizzeri ci si intende, la cultura e mentalità non dividono poi tanto. C'è però anche in questo piccolo paese un nord (ricco) e un sud più povero (il Ticino). È un fatto che la ricchezza si produce al nord (Zurigo ecc.).

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  3. << In parlamento ciascuno può esprimersi nella sua lingua, ma l'italiano si sente poco ed è meglio parlare la lingua della maggioranza, il tedesco, se si vuol essere ascoltati). >>

    Devo confessarti, caro Sergio, che quelli linguistici sono gli aspetti della Svizzera che mi hanno sempre messo più in crisi.
    Se non avessimo le prove storiche che il meccanismo funziona (siete lì da secoli e ve la passate piuttosto bene), direi che una simile mescolanza di idiomi non potrebbe mai funzionare.
    Non sarà che il multilinguismo "ambientale" stimola l'intelligenza delle persone e sviluppa il senso di tolleranza ?

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    1. Per l'ultima parte, dicono di si'.

      Inoltre se non ricordo male, parla dell'argomento persino Jared Diamond nel suo "il mondo fino a ieri": prima dei grandi stati nazionali e della recentissima scolarizzazione di massa in cui siamo immersi al punto di non riuscire a concepire nulla di diverso ne' nel tempo ne' nello spazio, bastava allontanarsi di pochi chilometri dal luogo di nascita per trovare una lingua significativamente difforme dalla propria, ma capendosi lo stesso. Durante la prima guerra mondiale, detta anche guerra civile europea, si combatteva contro persone che parlavano la stessa lingua avendo come commilitoni altre che invece ne parlavano una diversa: potenza dell'indottrinamento al nazionalismo di massa (e della coscrizione forzata).

      In italia oggi parliamo la stessa lingua solo in seguito alla cancellazione dei dialetti nazionali perseguita prima dalla scuola di stato, poi dalla televisione monopolistica.

      Coi nuovi mezzi di comunicazione privi di confini, tutto cio' sta saltando.

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    2. Caro Lumen,

      credo di avertelo già detto: le lingue ufficiali della Svizzera sono ben quattro (compreso il romancio parlato solo da ca. 30'000 persone, romancio che si suddivide a sua volta in vari idiomi ben distinti), ma non è che gli Svizzeri siano bi o plurilingui. Le regioni linguistiche sono ben delimitate (il Ticino persino dalle Alpi) e non sono molti quelli che se la cavano nelle tre lingue nazionali più importanti (lasciando da parte i quattro gatti che parlano romancio in alcune vallate dei Grigioni). Pochi svizzero-tedeschi parlano non dico bene, ma almeno passabilmente il francese (anche dopo cinque anni di francese a scuola). Gli svizzeri francesi sono costretti loro malgrado a imparare il tedesco che trovano ostico, ma non lo sanno bene. Ho invece constatato che non pochi ticinesi parlano bene il tedesco, anche perché molti ticinesi vanno al nord per studiare (politecnico) e lavorare. E in parlamento la lingua che domina è il tedesco. Eppure non regna il caos, ci si intende. Poi ormai avanza l'inglese, lingua d'uso in molte imprese e in parte persino al politecnico federale, e chissà quanti altri idiomi si parlano ormai.
      Sembra che il bilinguismo sia effettivamente un vantaggio, ma i veri bilingui sono pochi. La maggior parte della gente parla solo la sua lingua materna e se la cava forse in un'altra lingua. Ma la lingua degli affari è universale ed è quella che più conta.

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    3. "Se non avessimo le prove storiche che il meccanismo funziona"

      Il meccanismo funziona perche' non pretende di regolare tutto centralisticamente: dato che con tanta diversita' sarebbe stato impossibile fin dall'inizio, hanno imboccato l'unica strada allora possibile che, guarda il caso, si e' poi rivelata vincente.

      Comunque neanche loro, a quel che ci dice Sergio, hanno inventato niente, si sono limitati a copiare dagli americani cio' che sembrava funzionare (peraltro prima della guerra civile americana del 1861, che negli Usa ha prodotto un certo successivo accentramento, infatti gli usa sono una federazione, mentre la svizzera e' una confederazione).

      In Usa ci sono ancora comunita' anabattiste, gelosissime della loro indipendenza dal governo centrale, che sono di origine olandese e svizzera, e parlano ancora dialetto tedesco.

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