mercoledì 13 dicembre 2017

La teoria della Classe Alfa – 1

Torno a parlare della “teoria delle elites politiche” – dopo i 2 post dedicati a Michels - con questo lungo articolo (diviso anch'esso in 2 parti) che traccia una panoramica d’assieme di questa scuola di pensiero, con riferimento a tutti i suoi tre principali esponenti: Gaetano Mosca, Vilfredo Pareto e, appunto, Robert Michels. 
Il testo, chiaro ed interessante, è tratto dal sito Oilproject. 
LUMEN 


<< Emersa sul finire dell’Ottocento, la cosiddetta “teoria delle élites” ottenne una certa risonanza nel dibattito scientifico e pubblico, per poi giungere a imporsi in modo rilevante nel secolo successivo.

Secondo tale teoria, l’analisi scientifica di tutte le società rivela un fenomeno fondamentale per quanto generalmente ignorato o giustificato ideologicamente: entro ogni società, una minoranza, comunemente assai piccola ma organizzata, esercita il proprio dominio sul resto della popolazione, derivando dalla subordinazione di questa m tutti i privilegi di cui gode.

La teoria viene espressamente formulata per la prima volta nel 1896 a proposito dei rapporti politici – con riferimento ad autori del passato, a partire da Machiavelli – da uno studioso italiano: Gaetano Mosca nei suoi ‘Elementi di scienza politica’ (1896). In seguito, essa viene variamente ampliata e elaborata da un altro italiano, l’economista Vilfredo Pareto e da Robert Michels, studioso tedesco a lungo attivo in Italia.
Gli “elitisti” sono accomunati dall’intento di rivelare una realtà “effettuale” (per riprendere un’espressione di Machiavelli), che la stessa minoranza dominante nasconde e giustifica nel nome di principi e valori che evocano il consenso anche della maggioranza dominata. Si impegnano particolarmente nella critica di due ideologie contemporanee.

 Per la prima, le istituzioni liberal-democratiche (a cominciare dalla rappresentanza parlamentare) escludono che anche in società moderne abbia luogo il dominio della minoranza sulla maggioranza. L’ideologia socialista a sua volta critica quella liberale, ma argomenta che la vittoriosa lotta della classe operaia contro l’ordine esistente ne produrrà uno nuovo, caratterizzato dall’eguaglianza universale e privato da ogni rapporto di dominio.
 
Lo scetticismo degli elitisti nei confronti di tali teorie politiche deve essere inquadrato nell’ambito delle trasformazioni del contesto europeo alla fine dell’Ottocento. La rapida diffusione delle idee socialiste tra le masse urbanizzate di operai industriali, divenute sempre più numerose e organizzate, l’allargamento del suffragio e la crescita del capitalismo internazionale conducono a un’esacerbata conflittualità politica in Europa.

Le basi su cui si fonda lo stato liberale e le monarchie ottocentesche si sgretolano. L’emergere delle masse come protagoniste della vita politica provoca un radicale cambiamento nell’equilibrio delle istituzioni. Da allora la politica si svolge prevalentemente fuori dai parlamenti: nelle piazze dove si radunano le masse, nelle fabbriche dove si organizzano gli scioperi e le serrate, e nelle organizzazioni di partito, in cui vengono selezionati i leader e i temi per le campagne politiche.
 

Gli elitisti italiani, il liberale Gaetano Mosca e il liberista e poi fascista Vilfredo Pareto, risentono del clima di crisi che serpeggia nell’Italia di fine secolo: essi condividono un sentimento di scetticismo riguardo sia alla democrazia, sia al socialismo. Al contrario l’elaborazione teorica di Robert Michels (1876-1936) emerge dal terreno della militanza e poi della delusione politica all’interno del Partito socialista europeo più forte e organizzato: il Partito Social Democratico tedesco (SPD).
 
La teoria delle élites ha avuto e ha un ruolo fondamentale nelle scienze politologiche sia da un punto di vista metodologico, sia nell’ambito della critica delle ideologie. Sono notevoli gli spunti che essa ha fornito agli studi della scienza politica e della sociologia delle organizzazioni. Inoltre, secondo Bobbio, essa “contribuisce tuttora a scoprire e mettere a nudo la finzione della ‘democrazia manipolata’”.

 La teoria della classe di governo è esplicitamente fondata da Gaetano Mosca nel 1896 sull’osservazione che “fra le tendenze e i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n’è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in tutte le società [… ] esistono due classi di persone: quella dei governati e quella dei governanti” (…). La ragione del dominio dei pochi sulle maggioranze risiede nella loro capacità di organizzazione e cioè nell’abilità di formare un gruppo che sia più o meno internamente coeso.
 
Mosca distingue nettamente il suo approccio scientifico realistico da quello proprio delle teorie e ideologie a lui contemporanee. In altre parole, decreta l’inadeguatezza delle dottrine politiche democratiche e socialiste e delle teorizzazioni sulle forme di governo a descrivere i modi effettivi di esercizio del potere, e cioè a descrivere la struttura oligarchica di qualsiasi sistema politico. I precursori di tale approccio sono indicati esclusivamente in Machiavelli, Saint-Simon, Comte, Marx ed Engels e Hyppolite Taine.

 Mosca definisce generalmente il principio organizzativo come il criterio decisivo per la costituzione della classe politica e per il suo dominio, ma non chiarisce le relazioni di potere fra i diversi ambiti di azione, e cioè fra l’economia, la politica e la cultura. L’organizzazione è pertanto un principio interno che regola la costituzione della classe politica, mentre il modo in cui essa esercita il suo potere “all’esterno” è individuato nell’elaborazione delle “formule politiche”.
 
Queste ultime legittimano la classe dominante, permettendole di economizzare l’uso della forza e far leva sul consenso della maggioranza. Le formule politiche non sono, però, mere mistificazioni, ma rispondono a un bisogno insito nell’uomo ed esprimono i valori fondamentali su cui si basa la società.

 Mosca, malgrado la sua idea dell’ineluttabilità del principio oligarchico, prende sul serio la distinzione tra “classi politiche autocratiche”, legittimate dal principio secondo cui il potere procede dall’alto della società e [quindi] chiuse, e “classi politiche liberali”, legittimate dal basso e relativamente aperte. Queste ultime sono proprie degli assetti e processi politici moderni e li rendono ampiamente preferibili come risposta al problema del reclutamento dell’élite dominante. 

Tale valutazione, tuttavia, non contraddice la tesi centrale del pensiero elitista. La classificazione di vari regimi in base alla loro apertura permette al liberale Mosca di sottrarsi a una concezione esclusivamente pessimistica del governo liberale e di reinserire nel suo modello teorico una differenziazione più articolata per descrivere i modi di esercizio del potere. >>

OILPROJECT

 (continua) 

21 commenti:

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  2. Aggiungo che, attualmente, la contrapposizione popolo-elites non si gioca nemmeno più su un piano nazionale, ma internazionale, con il dominio incontrollabile dei mercati (globalizzati) e delle grandi strutture sovranazionali, come, per noi, la UE.

    Ecco cosa scriveva Calamandrei 70 anni fa:

    << la Repubblica italiana è veramente una Repubblica democratica? E l'Italia è veramente uno stato indipendente e sovrano? (...)
    Stato democratico sovrano è quello le cui determinazioni dipendono soltanto dalla volontà collettiva del suo popolo, espressa in modo democratico, e non dalla volontà o da forze esterne, che stiano al di sopra del popolo e al di fuori dello Stato. (...)
    [E questo] non soltanto perché (...) gli Stati economicamente più deboli debbono rassegnarsi a essere meno indipendenti di quelli economicamente più forti; ma anche perché i canali di penetrazione attraverso i quali le imposizioni riescono a infiltrarsi nell'interno di un ordinamento costituzionale apparentemente sovrano possono essere molto più complicati e molto meno classificabili di quelli previsti negli schemi dei giuristi.
    Sicchè può avvenire che in uno Stato che si afferma indipendente, gli organi che lo governano si trovino senza accorgersene, in virtù di questi segreti canali di permeazione, a esprimere non la volontà del proprio popolo, ma una volontà che vien dettata dall'esterno e di fronte alla quale il popolo cosiddetto sovrano si trova in realtà in condizione di sudditanza. >>

    Mi sembrano considerazioni sempre più attuali.

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  3. Sicuro di non aver frainteso qualcosa? L'elitismo, se non erro, sostiene che COMUNQUE a governare e' una minoranza, anche quando perfetta espressione di una maggioranza democratica. Tant'e' che pure Popper alla fine s'e' arreso affermando che il massimo che ci si puo' aspettare dalle moderne democrazie liberali e' la possibilita' di cambiare governo in modo pacifico e istituzionalizzato, non certo di avere il governo perfetto ne' perfettamente democratico. Del resto quando a a governare e' una maggioranza, e' sottinteso che lo fa imponendo una sua volonta' contro una minoranza, che accetta tale dominio solo perche' spera, alle prossime elezioni, di diventare lei maggioranza. E anche la minoranza fa parte del popolo...
    QUindi se visto in tale luce, quanto quanto sopra mi pare poco coerente. Ma potrei sbagliarmi sull'elitismo.

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  4. Caro Diaz, sicuramente è possibile che io abbia fraiteso qualcosa.
    Quello che volevo sottolineare è che l'elitismo classico (se ho capito bene) presupponeva una classe di comando privilegiata, ma comunque interna alla struttura nazionale.
    La situazione geo-politica attuale, invece, vede sempre di più la formazione di elites trans-nazionali (multinazionali, fondi di investimento, ong, comunità sovra-statali), le quali, per la loro stessa natura, risultano ancora più distaccate dall'interesse della collettività.

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  5. "risultano ancora più distaccate dall'interesse della collettività"

    Non credo sia il modo corretto di interpretare la teoria elitista: a quel che ne ho capito, secondo l'elitismo l'interesse della collettivita' non viene mai rappresentato da una qualsivioglia classe dirigente, essa rappresenta sempre e comunque l'interesse di piccoli gruppi organizzati, anche quando selezionati ed eletti secondo i piu' sacri crismi della democrazia rappresentativa.
    Questo e' espresso ad esempio dal principio di Pareto (uno deegli elitisti):
    https://it.wikipedia.org/wiki/Principio_di_Pareto

    Un esempio eclatante lo abbiamo nei paesi socialisti, in tutti.
    Un altro esempio e' dato dalla rappresentanza sindacale nei paesi capitalisti: non e' raro che dove i sindacati sono piu' forti, i loro rappresentati siano piu' poveri, e a causa proprio del modo in cui i sindacati ne difendono (formalmente) gli interessi, mentre di fatto tentano solo di mantenere nella sottomissione, non di rado con la complicita' degli industriali stessi, si' da mantenere il proprio potere. Anche questa occorrenza oggi ha un nome, si chiama "cattura del regolatore".

    Dobbiamo stare in guardia contro chi dice di difenderci da chissa' quale complotto di elite transnazionali: sempre o quasi si tratta di qualche furbastro che mira solo a sostituirsi ad esse, e non e' detto con nostro vantaggio.

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  6. Questo è giusto.
    Però si può affermare che quando le elites nazionali curano i propri interessi interni possono perseguire (per conseguenza collaterale, casuale o voluta) anche un po' degli interessi collettivi della nazione.
    Con le elites internazionali, questo diventa praticamente impossibile.

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    1. Nel momento in cui l'economia cioe' il mercato e' globalizzato, gli interessi collettivi della nazione non sono piu' separabili da quelli del mondo in cui e' inserita.
      Secondo me non dovremmo far finta di non sapere che la posizione dell'italia pre-1989 era una posizione di "cina" del mondo occidentale solo perche' dal mercato mondiale era esclusa quel tre quarti di umanita' che viveva sotto regimi chiusi, autarchici e comunisti. Con la caduta degli imperi del comunismo mondiale, l'accesso al mercato globale di quei paesi era inevitabile, cosi' come era inevitabile lo scalzamento della posizione classica dell'italia di grande paese manifatturiero a basso costo dell'occidente quale e' sempre stata dalla fine dell'ultima guerra alla caduta dei muri costruiti dai comunisti.
      Non e' per caso se a rifiutare caparbiamente questo fatto noto ed evidente, siano quelli che rimuovono la caduta dei muri comunisti come principale fattore della globalizzazione, attaccandosi a qualsiasi altra spiegazione pur di ignorare la piu' banale, che rifiutano di accettare.

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    2. Quindi, volendo fare del cinismo, si potrebbe dire che il comunismo della Cina e dell'URSS qualche merito c'è l'ha.
      E cioè che affossando per decenni la loro economia, ha consentito alla nostra di giganteggiare.

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    3. Per noi italiani direi proprio di si', ci eravamo specializzati per prosperare in quelle condizioni, e come fanalino di coda tecnologico d'occidente ma dotato di molta manodopera a buon mercato, ci era naturale fare da "cina".
      Cambiate le condizioni geopolitiche mondiali, e arrivata, anzi riemersa alle cronache la cina quella vera, ci tocca riadattarci alla situazione: competere al ribasso sul prezzo come facevamo prima non e' piu' praticabile, a meno che non si intenda tornare a redditi inferiori di almeno un ordine di grandezza (cioe' di un decimo o meno) di quelli attuali.
      Come poi ci inquadreremo tutti in un mondo in esplosione tecnologica, dei consumi e demografica, non e' possibile prevederlo. Ammesso che ci inquadreremo in qualche modo, le avvisaglie sono quelle della societa' orwelliana, o peggio degli insetti, e ci siamo gia' dentro con tutti e due i piedi, senza rendercene conto, intanto inseguendo fantasmi vari sui quali pure ci accapigliamo.

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    4. Ricordiamoci inoltre che fino ai circa '60, in europa occidentale, grecia spagna e portogallo erano paesi fascisti e in quanto tali arretrati, poveri e chiusi non molto diversamente da quelli comunisti. In america latina lo stesso, c'erano regimi o fascisti o comunisti, arretrati civilmente, economicamente e tecnologicamente. Nemmeno loro ci facevano quindi paura come concorrenti. I loro eredi e nostalgici di oggi guardacaso sono tutti no-global e noeuro, stranamente...

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    5. Insomma, una specie di "mors tua, vita mea" a livello di nazioni.
      Il mio amico "gene egoista" ne sarebbe fiero (se mai si preoccupasse di qualcosa). :-)

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    6. "mors tua, vita mea"

      Non credo, in fin dei conti l'ordine di mercato esiste in qualsiasi tipo di societa' umana, in ogni luogo e in ogni tempo, solo perche' e' utile a tutti. Le cose cominciano ad andare davvero male solo quando si cerca di bloccarlo per ricavare dei vantaggi temporanei sostituendolo con qualche altro tipo di ordine imposto. E' la tentazione di ogni detentore del potere (che oggi e' la cosiddetta maggioranza democratica, infatti ogni volta che qualcuno vince per prima cosa "a colpi di maggioranza" cerca di cambiare le regole a suo vantaggio). Il libero scambio volontario e' intrinseco alla natura sociale e collaborativa dell'essere umano, anzi e' la sua forza, ognuno desidera cio' che non ha in cambio di cio' che ha di troppo.

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    7. "ognuno desidera cio' che non ha in cambio di cio' che ha di troppo"

      Che equivale a dire che desidera scambiare cio' che per lui vale di piu' in cambio di qualcosa che per lui stesso vale di meno, squilibrio che si colma solo quando tutti piu' o meno hanno lo stesso. E' quando si rende possibile appropriarsi di qualcosa in altro modo che col libero scambio volontario che questo meccanismo si inceppa e qualcuno, persona o gruppo, puo' avere sempre di piu', sottinteso con la forza, senza dare nulla in cambio.

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    8. << E' quando si rende possibile appropriarsi di qualcosa in altro modo che col libero scambio volontario che questo meccanismo si inceppa e qualcuno, persona o gruppo, puo' avere sempre di piu', sottinteso con la forza, senza dare nulla in cambio. >>

      Con la forza, certo, ma non solo.
      Nella specie umana (e solo in essa) è anche possibile ottenere qualcosa in cambio di nulla, utilizzando semplicemente l'inganno ideologico.
      Ovvero con la promessa (non verificabile) di un paradiso prossimo venturo (da intendersi in senso lato, non necessariamente religioso).

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    9. Ho citato la forza perche' e' la discriminante: finche' non c'e' violenza fisica non credo che la frottola sia preoccupante ne' da censurare: in fin dei conti sarebbe una psicopolizia orwelliana anche quella che cercasse di impedire l'inganno e la frottola in nome di una "superiore verita' scientifica" (spero si colga l'ironia): se uno vuole credere in qualcosa e questo lo fa sentire bene, cavoli suoi. Se poi lo fa pure sentire male, cavoli suoi due volte.

      Sinceramente troverei preoccupante invece un atteggiamento di censura attiva verso le "false credenze": le credenze sono tutte potenzialmente false, qualsiasi cosa potrebbe essere censurata.

      Dovremmo proibire non solo quasi tutti i film e i romanzi contemporanei (specie sulla fantascienza e sulla religione), ma anche quasi tutta la letteratura scientifica, anzi tutta perche' senza contraddittorio pure quella che resterebbe non sarebbe piu' considerabile scientifica.

      Per ribadire restando nella cronaca, la campagna contro le cosiddette fake news. le bufale, e' accettabile solo finche' resta nei limiti della dialettica, se va oltre diventa violenza inaccettabile e da respingere categoricamente.

      Purtroppo queste faccende vengono viste in modo opposto anche dalle stesse persone, a seconda che detengano o meno le leve del potere e che vedano vincere o meno le proprie convinzioni: quando si vedono in difficolta', quasi tutti si scandalizzano e ritengono necessario impedire con la forza le opinioni a loro contrarie.

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    10. << Ho citato la forza perche' e' la discriminante: finche' non c'e' violenza fisica non credo che la frottola sia preoccupante ne' da censurare. >>

      Su questo la penso come te.
      Arriverei addirittura a limitare l'ambito del diritto penale (la cui inefficienza è anche figlia di una estensione eccessiva) ai soli comportamenti violenti.
      Ma qui finiamo off topic.

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    11. "Arriverei addirittura a limitare l'ambito del diritto penale"

      Oggi come oggi, che gli Stati nazionali sono alla disperata ricerca di soldi secondo la prassi per cui "il fine giustifica i mezzi", e' molto piu' temibile il civile economicamente risarcitorio al penale eticamente contributivo. Quindi meglio non esporsi troppo nell'esprimere preferenze, non aspettano altro per travisarle nella loro (per noi) nemesi.

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  7. L'inghippo e' che viene spontaneo (anzi torna comodo) pensare che l'aristocrazia che oggi blocca lo scambio di mercato per suo vantaggio sia una minoranza elitaria padrona delle leve e piu' o meno nascosta nell'ombra, come secondo la teoria in oggetto, mentre la vera aristocrazia di oggi e' la cosiddetta classe inutile rappresentata dalla maggioranza elettorale, siamo noi gente comune che consuma tutto senza produrre nulla, se non una montagna di fuffa autoreferenziale e di richieste, prontamente soddisfatte dal legislatore, di esenzioni dal normale scambio di mercato, in modo da avere senza dare nulla in cambio. La decadenza dell'occidente e' tutta qui, IMHO, nella gente, la maggioranza, che non si rende conto che sul medio periodo puo' consumare solo cio' che produce, e che se non produce nulla o fuffa...
    Poi che questo dipenda o no dalla proteina egoista, boh (sai che il gene e' lo stratagemma che usa la proteina per riprodurre se stessa ;)

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    1. << il gene e' lo stratagemma che usa la proteina per riprodurre se stessa ;) >>

      Carina come battuta.
      Mi pare però che le proteine abbiano anche altri sistemi per (ri)prodursi, mentre i fenotipi hanno solo il gene.

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    2. Ogni gene codifica per una proteina, che sono i "mattoni" elementari su cui e' costruito qualsiasi essere vivente.
      Tutte le proteine a loro volta, e quindi tutti gli essseri viventi animali o vegetali, sono composti da combinazioni di soli venti amminoacidi elementari. Il dna e' una sequenza di "triplette" di informazione ognuna delle quali codifica per un amminoacido. Le basi della vita sono di una semplicita' rabbrividente, specie se si considera quanta sconfinata complessita' derivi da tanta elementare semplicita'.

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