venerdì 25 marzo 2016

Classe Alfa - 1

Dal “maschio alfa” che comanda il branco, alla “classe alfa” che guida la società. Un articolo di Alberto Lo Presti sul sociologo tedesco Robert Michels (1876–1936) e la sua teoria delle elites politiche. Lumen

 
(prima parte)
 
<< Le idee fondamentali, e più conosciute, di Robert Michels ruotano attorno a quella che da più parti è riconosciuta come legge ferrea dell’oligarchia. Non ci sono dubbi – secondo Michels - sull’esito politico delle forme del potere democratico: «La democrazia conduce all’oligarchia. E’ tale non tanto la nostra tesi, quanto la conclusione dei nostri studi».
 
Michels è la figura che chiude il periodo di fondazione dell’elitismo politico moderno, iniziato con le produzioni di Gaetano Mosca e di Vilfredo Pareto. (…) Al pari di Mosca e di Pareto, anche Michels affranca la sua riflessione da qualsiasi ambito morale, giacché le sue conclusioni vogliono avere la pretesa di essere al di là del Bene e del Male, come dovrebbe essere – secondo loro – per qualsiasi altra legge sociologica. (…)
 
E la legge sociologica generale, per Michels, è la legge che vuole ogni aggregato umano tendere, immanentemente, alla formazione di oligarchie. (…)
 
L’assunto di Michels muove da un sillogismo. Le moderne democrazie si fondano sul sistema dei partiti politici e questo significa che costruire un’analisi scientifica delle democrazie deve poter significare occuparsi delle organizzazioni dei partiti. Anzi, il funzionamento dei partiti politici è l’indice migliore che può argomentare lo stato di salute di una democrazia.
 
Utilizzando quella che lui a più riprese chiama legge generale della sociologia, cioè quella che vuole ogni aggregato umano costruire oligarchie, allora la sorte della democrazia, che si regge su aggregati come i partiti politici, è segnata. Infatti, nella concezione di Michels il principio di sovranità popolare affermato dall’idea di democrazia è una menzogna. I partiti politici, per la loro stessa natura, producono leadership di potere in senso oligarchico.
 
Questo significa, principalmente, che l’analisi delle forme del potere politico si riduce ad una analisi del diverso grado di potere oligarchico presente nel sistema politico. Dal potere monarchico, massimo grado di espressione dell’oligarchia, alla democrazia, nella quale la numerosità di coloro che appartengono alla classe dominante si estende in misura maggiore. (…)
 
Secondo Michels fra aristocrazia e democrazia c’è uno stretto legame, che deve essere messo in rilievo se si vuole procedere scientificamente alla valutazione degli ordinamenti politici esistenti. Si tratta di un mutuo rapporto di necessità, giacché se è vero che l’aristocrazia, che aspira alla conservazione del potere politico, è costretta a presentarsi con peculiarità tipiche della democrazia, è altrettanto vero che il contenuto della democrazia è, inevitabilmente, penetrato di elementi aristocratici.
 
Questa oligarchia possiede una capacità di conservarsi superiore a qualsiasi destino storico e, pur di non perdere la posizione di dominio, «ama mutar di maschera e di coccarda» - dice il Michels nella prima edizione della sua opera - così che «la corrente di pensiero conservatrice […] ci appare oggi legata all’assolutismo, domani al costituzionalismo, dopodomani al parlamentarismo».
 
Lo svolgersi della storia politica, in tal senso, è subordinato alle dinamiche vissute dalla classe al potere politico, e in particolare dalle trasformazioni del vecchio ceto aristocratico.
 
Le aristocrazie di un tempo sono ormai sconfitte dall’avvento della modernità e del sistema dei partiti politici. Di questi ultimi, anche quelli conservatori devono far riferimento all’azione della società civile e della massa, per cui devono cedere qualcosa alla purezza del principio oligarchico: «anche se per loro natura restano anti-democratici, essi si vedono obbligati, almeno in determinati periodi della vita politica, a fare professione di democrazia o anche a ostentare una fede democratica»
 
Addirittura, sembra sottolineare Michels, «l’istinto di autoconservazione che agisce anche in politica, spinge elementi dei vecchi gruppi dominanti a scendere dall’alto dei loro posti di privilegio durante il periodo elettorale, per dare di piglio a quegli stessi strumenti democratici e demagogici di cui si vale la più giovane, numerosa e incolta delle nostre classi sociali, il proletariato». (…)
 
Secondo Michels, la teoria del pensiero liberale non basò, all’origine, le sue aspirazioni sulle masse. Il suo riferimento furono i nuovi ceti borghesi, già dominatori nel campo economico, ma che ancora erano esclusi dal potere politico. (…) Per i nuovi ceti borghesi «le masse pure e semplici risultavano un male necessario, sfruttabile unicamente per raggiungere scopi cui esse erano estranee». Michels cita una quantità di storici e filosofi che così interpretano l’evoluzione dei movimenti liberali e democratici. (…)
 
Se la democrazia può manifestarsi in due modi, cioè come dominio dei rappresentanti o come dominio della massa, bisogna osservare che nella storia del pensiero politico i primi sostenitori del liberalismo hanno percepito la seconda opzione in modo più negativo. (…)
 
Michels osserva come alla base delle dinamiche politiche vi sia una legge uniforme: qualsiasi gruppo si trovi a gestire il potere politico aspira, e progetta, di conservare questo dominio trasmettendolo ai propri discendenti. Emerge in questo frangente la visione antropologica di Michels: l’uomo sociale agisce sollecitato dai suoi istinti che, in ogni settore, gli impongono un imperativo, quello di tramandare in eredità il suo possesso.
 
D’altronde, è questo stesso principio generale che ha dato origine alla matrice borghese dell’istituto della famiglia, che nasce con l’indissolubilità del matrimonio e la condanna dell’adulterio proprio perché, secondo Michels, l’uomo che giunge a un certo benessere economico ha, per istinto, l’esigenza di tramandare in eredità il suo possesso al figlio legittimo.
 
Includendo, negli oggetti di possesso privato da trasmettere ereditariamente, anche il potere politico, ecco che la dinamica dei gruppi al potere è praticamente scritta: il gioco delle parti consiste in coloro che cercano di conservare la propria posizione di dominio e negli altri che cercano di soppiantare i poteri dei primi.
 
Si noti bene che, secondo Michels, questa dinamica è superiore a ogni istituzione di diritto pubblico, quindi sarebbe veramente fuorviante – sempre per Michels – credere che nelle moderne democrazie queste dinamiche perverse non avvengano.
 
Quello che veramente è tipico, del corredo democratico di un assetto istituzionale, consiste nella possibilità che ciascun gruppo in competizione politica ha di condire la propria posizione con una buona dose di ipocrisia illimitata. Si scopre, per esempio, che tutti quelli che, nella modernità, hanno mosso una opposizione ai privilegi e ai costumi dei vecchi ceti aristocratici ne hanno, una volta raggiunto il potere, ricopiato le espressioni tipiche.
 
Ma un altro modo assai caratteristico di misurare l’illimitata ipocrisia di chi lotta per conquistare il potere politico è quello di osservare come si serve dell’etica per i suoi scopi. Tutti i gruppi contendenti, in pratica, si servono di argomentazioni etiche volte a dimostrare il bene universale che la loro azione politica persegue, mentre a vedere meglio non stanno altro che rincorrendo i propri particolarissimi ed egoistici fini. (…)
 
Il fattore innovativo portato dalla democrazia moderna è l’organizzazione. In pratica, è attraverso l’organizzazione che si può impostare il libero conflitto politico fra gruppi forti e gruppi meno forti, in quanto è l’organizzazione che riesce a fare della solidarietà fra i deboli aventi uguali interessi una struttura in grado di competere per il potere politico. (…) Ma l’organizzazione delle parti, la quale consente alle masse di competere per il potere, produce anche effetti indesiderati, controproducenti, vale a dire il dilagare dello spirito conservatore all’interno dell’arena politica.
 
Infatti, quando parliamo di un partito popolare, di un partito che vuole essere a favore delle masse, dobbiamo chiarire che esso non può essere direttamente guidato dalle masse. «Chi dice organizzazione, dice tendenza all’oligarchia».
 
Infatti, realtà come i partiti politici hanno bisogno di delegati che sbrighino gli affari correnti e che possano prendere decisioni immediate. Ai primordi della formazione di queste strutture partitiche, il delegato è indissolubilmente legato alla volontà della massa. Ma con la specializzazione dell’impresa politica, si richiedono ai delegati maggiori cognizioni e particolari abilità. Ecco che nasce l’esigenza di formare i delegati del partito, attraverso corsi e scuole adatti, e il risultato fu quello di creare élites di aspiranti al comando del partito, comunque dirigenti delle masse.
 
E’ questo processo che fa dei delegati originari sottoposti alla volontà delle masse, un organismo indipendente ed emancipato dalla massa. Per tale ragione è implicita l’oligarchia dentro una qualsiasi organizzazione partitica. In pratica, il meccanismo dell’organizzazione è tale per cui ogni partito viene diviso «in una minoranza che dirige ed una maggioranza che è diretta». (…)
 
Il potere politico è qualcosa per cui lottare e una volta acquisito - non importa in che modo - si deve difendere, conservare e tramandare; le idee etiche, i valori, altro non sono che armi per ingaggiare questa lotta e costruire una parvenza di bontà universale che possa celare i reali interessi particolari in gioco. >>
 
ALBERTO LO PRESTI
 
(segue)

22 commenti:

  1. Un bellissimo articolo che però risulta per finire anche un po' deprimente: bando alle illusioni, quelli là - una volta arrivati in cima - perseguono un solo scopo, restarci. Leggendo mi sono venute in mente "Le Frattocchie", la scuola dei quadri comunista frequentata anche da d'Alema ... Che bisogno c'è di quadri se l'ideale è chiaro a tutti (ciascuno secondo le proprie capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni) ? Anche "ama il prossimo come te stesso" non necessita di interpreti, di quadri, di Chiesa.
    Ma com'è allora che si vuole esportare la democrazia ovunque, anche a suon di bombe, come se la democrazia fosse il punto finale dell'evoluzione della società? Perché - di dice - le democrazie sono più pacifiche, rispettano il principio dell'uguaglianza e non si fanno trascinare in avventure guerresche (difatti gli USA fanno una guerra dopo l'altra da mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale).
    Insomma, la democrazia sembra essere il nostro orizzonte, ovvero: pur con tutti i suoi limiti non c'è di meglio. Sarà, forse ...
    Personalmente continuo a credere nella "gerarchia dei valori". Il posto di questi valori può mutare (ciò che ci sembrava d'importanza vitale ieri non lo è più oggi), ma resta la scala dei valori. C'è una gerarchia anche fra gli autori che amiamo o apprezziamo. Sì, il principio gerarchico sembra connaturato, ma siccome è d'obbligo oggi esaltare la democrazia tendiamo a rifiutare ogni gerarchia. Che però si riforma, come è ben descritto nell'articolo.
    La democrazia non è il massimo, ma solo un metodo per decidere chi ha il potere a termine. Una decisione presa a maggioranza può essere sbagliata, funesta persino. Il metodo democratico permette una correzione alla prossima tornata. Né più né meno. Perciò sono un po' allergico all'esaltazione della democrazia, e nel paese della democrazia diretta (che è poi solo un freno all'azione parlamentare - tutte le leggi del parlamento possono essere contestate, alcune sono persino sottoposte a referendum obbligatorio).
    Va bene dunque il principio democratico, ma non facciamone un feticcio. La "massa", anche in tempi di Wikipedia e reti sociali, non è sempre bene informata, non giudica en connaissance de cause.

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    1. "gerarchia dei valori":

      suppongo sia un pleonasma, "assegnare un valore" significa implicitamente, anzi esplicitamente, porre in una scala di preferenze personali: l'errore (frequente) e' semmai nell'oggettivare cio' che e' soggettivo.

      Il problema dell'"oggettivazione" viene risolto, lasciando in confusione chi e' mal disposto a tollerare il relativismo della scala dei valori qualora applicato ai suoi, nel considerare come "oggettiva" la tendenza sociale del momento. Il "mos maiorum" dei romani e' oggettivo in quanto e' esterno al soggetto e lo costringe con la persuasione e con forza ad adeguarsi.

      La storia dei regimi politici tratta dei modi e della quantita' in cui viene statuito, e applicato, il "mos maiorum" o suo equivalente.

      Un esempio di confusione si trova in questo commento a Hume da parte di questo "homolaicus", che in realta' appare, invece che laicus, francamente marxista:
      http://www.homolaicus.com/teorici/hume/hume.htm

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    2. Non ho capito la tua obiezione (gerarchia dei valori = pleonasma?). Mi sembra che sia l'individuo che la società abbiano una scala di valori (che in parte o in tutto sono sovrapponibili). I valori sociali (mos maiorum) sono cogenti, è impossibile sottrarvisi. Ma anche tra questi valori c'è una scala (alcuni valori sono più importanti). La mia scala di valori per quanto soggettiva è comunque per me importante o persino decisiva. Io ho voluto criticare la sacralizzazione della democrazia che è solo un metodo di organizzazione sociale, ma che sembra assurgere "al" metodo universale e da imporre a tutti.
      I valori possono essere preferenze e basta, questione di gusti, e valere solo per me, oppure principi determinanti del vivere, dunque oggettivi (ed eventualmente da imporre agli altri se non li riconoscono).Il comunismo o socialismo o il libero mercato o l'economia sociale di mercato non sono solo semplici preferenze. Chi ci crede li ritiene verità oggettive (il marxismo aspirava ad essere scienza).

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    4. << I valori sociali (mos maiorum) sono cogenti, è impossibile sottrarvisi. Ma anche tra questi valori c'è una scala (alcuni valori sono più importanti). >>

      Direi che il 'mos maiorum', e la relativa scala, siano in effetti il fondamento basilare di ogni società che funziona.
      La quale infatti, in caso di eccessiva frammentazione ideologica o multi-culturalismo subisce una tragica confusione dei valori, vacilla e poi, inevitabilmente, cade.
      Noi, al momento, sembriamo incamminati su questa strada.

      E' vero che il 'mos maiorum' può essere molto condizionante per il singolo, ma la società, nel suo complesso, ha bisogno che sia quanto più possibile cogente e condiviso.
      E quindi anche il singolo che non lo condivide, deve comunque riconoscerne il valore di guida, ed essere disposto a rispettarlo, anche solo formalmente, nel suo stesso interesse.

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    5. "Non ho capito la tua obiezione"

      Infatti non era un'obiezione, piuttosto un rafforzativo, volevo solo dire che nel momento in cui si assegna un valore attraverso un giudizio, si mette gia' di per se' in una scala di valore, cioe' in una gerarchia. Detta in altro modo, non si puo' assegnare un valore specifico a ogni cosa per poi dire che tutto ha lo stesso valore, che tutto e' uguale. Ma non credo di essere piu' chiaro, ho solo ripetuto quanto gia' detto.

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    6. "frammentazione ideologica o multi-culturalismo subisce una tragica confusione dei valori"

      Anche questo e' un "mos maiorum", e' il nostro mos maiorum, il problema e' con quelli che non lo condividono e pretendono che il loro sia l'unica verita' (come i cristiani dal tempo dei romani fino a qualche decennio fa, o i marxisti-comunisti e i fascisti del nostro tempo).

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    7. << Anche questo e' un "mos maiorum" >>

      Certo, ma è un 'mos maiorum' che non funziona.
      Per questo, pur con tutti i distinguo del caso, capisco coloro che lo combattono in nome di qualcosa di più univoco (che aveva i suoi mille difetti, e che comunque non può più tornare, ma questo è un altro discorso).

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    8. "Certo, ma è un 'mos maiorum' che non funziona"

      Non direi, visto che il paese in cui e' maggiormente presente e' quello di maggiore successo, gli Usa, che hanno costituzionalmente basato la loro carta fondamentale sulla tolleranza per usi e costumi molto diversi, gli stessi che in europa hanno a suo tempo causato spaventose guerre di religione. Sto guardando dei filmati sugli Amish, discendenti degli anabattisti svizzeri zwingliani, noti estremisti religiosi (c'e' una recente serie TV, "breaking amish", che ne tratta), eppure e' divertente constatare come nel paese tecnicamente piu' avanzato coesistano comunita' francamente medioevali, che parlano ancora la lingua degli antenati (tedesco), e chiamano "inglesi" il resto del mondo. Fino a non molto tempo in Usa era tollerata persino la poligamia dei mormoni (non sono aggiornato).

      La nostra stessa societa' e' sopravvissuta quasi benissimo al dualismo cattolici/comunisti, basandosi sullo stesso principio, che pero' non e' ne' cattolico ne' comunista, bensi' liberale-illuminista, di tolleranza reciproca. Non vorrei che dimenticarsene possa diventare un terribile abbaglio. COl progredire della globalizzazione tecnologica non vedo altri possibili sbocchi.

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    9. << gli Usa (..) hanno costituzionalmente basato la loro carta fondamentale sulla tolleranza per usi e costumi molto diversi >>

      Sì, certo, negli USA vi è una grande libertà religiosa (mi viene in mente il politeismo aperto dell'antica Roma), eppure c'è qualcosa che non mi convince nel tuo discorso.

      Io penso che anche gli USA abbiano i loro tabù unificanti, solo che non hanno un carattere religioso.
      Potrebbe essere l'adorazione dei soldi e del mercato, o il senso di superiorità del proprio paese sul mondo, oppure altro ancora (una volta, ad esempio, c'era il razzismo bianco che dominava ovunque).

      Quindi non mi sento di considerare gli USA un paese davvero tollerante in tutte le sue manifestazioni culturali.
      Ma posso sbagliare.

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    10. Il discorso e' che ci si puo' fare un vanto di superiorita' culturale anche nel fatto di essere tolleranti e relativisti, senza alcuna intrinseca contraddizione.

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    11. Il problema attuale degli Usa potrebbe invece essere nel credere di poter risolvere tutto in modo "tecnicistico", applicando teorie meccanicistico-pavloviane all'economia e alla sociologia, e per esteso all'umanita', cosa che gli sta dando brutte sorprese e gli rende impossibile capire perche' siano sempre piu' odiati dappertutto.
      Stanno assomigliando sempre di piu' alla "macchina tedesca", tutta efficienza e niente cuore, fra le due guerre... macchina che per altri aspetti considerava il denaro e il mercato espressioni demoniache, altro che divine.

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  2. << Ma com'è allora che si vuole esportare la democrazia ovunque, anche a suon di bombe, come se la democrazia fosse il punto finale dell'evoluzione della società? Perché - di dice - le democrazie sono più pacifiche, rispettano il principio dell'uguaglianza e non si fanno trascinare in avventure guerresche (difatti gli USA fanno una guerra dopo l'altra da mezzo secolo, dopo la seconda guerra mondiale). >>

    Caro Sergio, certo la democrazia è piena di paradossi e contraddizioni, come tu hai giustamente rilevato, ma credo che occorra un po' intendersi.

    Lasciamo pure da parte il principo dell'uguaglianza, che, in effetti, con la democrazia c'entra abbastanza poco (di eguale c'è solo il peso numerico del voto e poco altro), ma sul carattere pacifico della democrazia credo che sia difficile dissentire.
    E' vero, gli USA (e non solo) hanno fatto un gran numero di guerre e guerricciole, ma si è sempre trattato di guerre contro stati NON democratici e questo, secondo me, fa una grande differenza.

    Volendo sintetizzare, si potrebbe dire che le democrazie sono compatibili con la guerra, ma restano comunque pacifiche sotto 3 importantissimi aspetti:
    - non si fanno la guerra TRA LORO
    - gestiscono il dissenso sociale in modo pacifico (senza la polizia segreta e le camere di tortura).
    - consentono un ricambio pacifico della classe politica (saranno anche tutti ladri ed incapaci, ma possiamo sostituirli senza fare la rivoluzione).

    E' poco ? E' tanto ?
    Non lo so, ma per un tipo pacifico come me basta e avanza.

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    1. "E' poco ? E' tanto ?"

      Il modo in cui viene definita la classe dirigente e' del tutto irrilevante in un contesto in cui il "dispotismo amministrativo", gia' tanto bene riconosciuto e descritto da Tocqueville due secoli fa come degenerazione delle democrazie, la fa da padrone.

      Il punto chiave e': "uomini che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigere se stessi" e "non si può mai sperare, quindi, che un governo liberale, energico e saggio possa uscire dai suffragi di un popolo di servi"


      "I popoli democratici, introducendo la libertà nella vita politica nel tempo stesso in cui aumentavano il dispotismo amministrativo, sono stati portati a singolarità stranissime. Se si tratta di condurre piccoli affari, nei quali può bastare il buonsenso, essi stimano incapaci i cittadini; se si tratta, invece, del governo di tutto lo stato, affidano ai cittadini immense prerogative; così ne fanno a volta a volta i trastulli del sovrano e i suoi padroni; più dei re e meno degli uomini. Dopo avere escogitato infiniti sistemi di elezione, senza trovarne uno adatto, si stupiscono e cercano ancora: come se il male che essi notano non dipendesse dalla costituzione del paese molto più che da quella del corpo elettorale.
      È effettivamente difficile comprendere come mai degli uomini, che hanno interamente rinunciato all’abitudine di dirigere se stessi, potrebbero riuscire a scegliere bene quelli che li dovrebbero guidare; non si può mai sperare, quindi, che un governo liberale, energico e saggio possa uscire dai suffragi di un popolo di servi.
      Una costituzione repubblicana nella testa e ultramonarchica in tutte le altre parti mi è sempre sembrata un mostro effimero: i vizi dei governanti e l’imbecillità dei governati la porterebbero presto alla rovina, mentre il popolo, stanco dei suoi rappresentanti e di se stesso, creerà istituzioni più libere o ritornerà a subire un solo padrone. (cit.)

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    2. << Il modo in cui viene definita la classe dirigente e' del tutto irrilevante in un contesto in cui il "dispotismo amministrativo" (...) come degenerazione delle democrazie, la fa da padrone. >>

      E' un concetto molto interessante questo, Diaz.
      Però non credo che sia una prerogativa particolare delle democrazie.
      In fondo le dittature cosa altro sono se non delle immense, totalizzanti (ed inefficienti) burocrazie ?

      Forse, fermo restando l'aspetto negativo della questione, nelle democrazie il dispotismo amministrativo potrebbe anche essere meno asfissiante.
      E ci sembra che lo sia di più solo perchè, votando i nostri governanti, speriamo - tramite loro - di avere un controllo maggiore sulla macchina dello stato.

      Il che poi non è, sia per la difficoltà intrinseca di guidare una burocrazia (che è una specie di potere autonomo nello stato), sia perchè i politici fanno presto ad appoggiarsi ai grandi burocrati, nell'interesse reciproco.

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    3. "Però non credo che sia una prerogativa particolare delle democrazie."

      Ci mancherebbe che lo fosse, altrimenti la democrazia sarebbe il peggiore dei metodi di governo compresi tutti gli altri!
      Il punto e' che una democrazia il cui il cittadino "ha interamente rinunciato all’abitudine di dirigere se stesso ed e' servo del dispotismo amministrativo", e' a tutti gli effetti una dittatura anche se ogni tanto c'e' un'elezione. Che te ne fai della liberta' politica se e' l'unica liberta' che hai, e sei completamente schiavo su tutto il resto? La liberta' politica in se' non serve a nulla, e questa, per qualche strana alchimia, e' esattamente la nostra situazione attuale.
      Rileggere Tocqueville...
      Forse, la causa di tutto e' la concezione tecno-meccanicistica della societa' e della politica, che permea la nostra visione del mondo. L'alluvione legislativa, con la sua pretesa di risolvere tutto con prescrizioni sempre piu' dettagliate (=schiavitu' sempre piu' profonda) potrebbe essere un chiaro sintomo di cio'.

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    4. << L'alluvione legislativa, con la sua pretesa di risolvere tutto con prescrizioni sempre piu' dettagliate >>

      Condivido.
      Qualcuno (Bruno Leoni mi pare) ha detto che la legislazione parlamentare moderna, così minuziosa, invasiva e ridondante, perde ogni contatto col sentimento popolare del tempo, e finisce per trasfomare la legalità (che deve avere una base popolare e condivisa) in semplice formalismo giuridico.

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    5. "legislazione parlamentare moderna, così minuziosa, invasiva e ridondante, perde ogni contatto col sentimento popolare del tempo"

      In realta' il "sentimento popolare del tempo" e' quello che la richiede, la legislazione sempre piu' invasiva. Ma avete mai provato a discutere con gente "normale" sugli ultimi provvedimenti legislativi? Sono tutti entusiasti sia della moltiplicazione delle regole che dell'inasprimento delle pene, trovare qualcuno che dimostri spirito di tolleranza e indulgenza verso gli altri quanto verso se stesso e' rarissimo. La profezia del Tocqueville si e' dimostrata esatta, purtroppo. Essendo nati schiavi, non possono immaginare altro.

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    6. Vorrei precisare e rimarcare, a scanso di equivoci, che non credo che l'alluvione legislativa sia l'effetto perverso di una classe dirigente antidemocratica e lontana dal popolo, bensi' il contrario, che sia lo spirito del tempo vivo nel popolo che vede se stesso come una macchina che risponde ciecamente a stimoli pavloviani, che richiede a gran voce questa legislazione.

      Gli economisti che oggi vanno per la maggiore lo affermano espicitamente, che la legislazione ad esempio fiscale serve a creare incentivi e disincentivi a cui gli agenti economici rispondono meccanicamente!

      Questa e' la weltanschauung del nostro periodo, che non si puo' sostenere salvo poi lamentarsi dei suoi effetti su se stessi non graditi.

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    7. << non credo che l'alluvione legislativa sia l'effetto perverso di una classe dirigente antidemocratica e lontana dal popolo, bensi' il contrario >>

      Diciamo. forse, metà e metà.
      E' difficile dire dove finisca l'autolesionismo normativo della gente (che in effetti spesso è la prima a chiedere leggi cattive ed inutili) e dove incominci la convenienza furbesca del legislatore.

      Certo, però, la convergenza è evidente, ed ha effetti davvero devastanti sulla convivenza civile.
      Oggi è facilissimo, per un cittadino, violare leggi e regolamenti senza neppure saperlo, il che è esattamente il contrario di quello che un corpus giuridico efficiente dovrebbe fare.

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  3. La gente non e' autolesionista, e' lesionista: ed e' la somma di tutte queste istanze, che il legislatore e' costretto a formalizzare se vuole mantenere il posto, che finisce per ledere, in modo circolare, tutti.
    Il continuare ad additare il capro espatorio nel legislatore, meglio se del partito avverso, serve solo a rendere sempre peggiore la situazione (e questo si' a scopo di "lucro", fosse anche solo nel sentirsi buoni spostando l'attenzione di tutto il male altrove - che e' quello che fa qualsiasi opinionista piu' o meno di successo, a qualsiasi livello).

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  4. << La gente non e' autolesionista, e' lesionista: ed e' la somma di tutte queste istanze (...) che finisce per ledere, in modo circolare, tutti>>

    Bella questa riflessione.
    Molto azzeccata e, direi, molto 'Cipolliana'.

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