sabato 5 dicembre 2015

Avanti Popolo !

La storia della “sinistra politica”, intesa come movimento ideologico di ispirazione socialista, è sempre oscillata tra le posizioni più moderate (la c.d. socialdemocrazia) e quelle più estremistiche (comunismo e simili). 
Questa oscillazione ha portato spesso ad errori storici, ovvero a fare scelte teoricamente giuste nel momento sbagliato, finendo per accumulare qualche successo e molte sconfitte.
Ce ne parla il politologo Aldo Giannuli in questi due brevi articoli, tratti dal suo sito.
LUMEN

 

<< Al suo sorgere [nell’800], il movimento socialista fu tutto rivoluzionario ed antisistema (salvo gli inglesi che sono sempre stati riformisti), tanto in Francia quanto in Italia, in Spagna ed in Germania. (…)
 
La svolta venne dopo il 1871, con la repressione della Comune di Parigi: un massacro di ferocia senza precedenti, con migliaia di comunardi fucilati o deportati. Lo shock fu molto forte e se, in seguito, questo spingerà le frange più di sinistra sulla strada dell’insurrezione, armata ma preparata scientificamente (il leninismo, in primo luogo), nell’immediato la lezione venne vissuta piuttosto come un perentorio invito alla moderazione.
 
La vittoria degli orientamenti riformisti, prima di tutto in Francia e Germania, poi in Italia e Spagna, venne fra gli anni settanta ed i primi novanta, proprio sulla base della riflessione sul tragico esito della Comune. Parve che la via elettorale e riformista fosse una manifestazione di saggezza: scambiare la velocità del processo con la solidità dell’avanzata e la sicurezza di non dover affrontare una repressione di quella gravità.
 
Lo stesso Engels, nell’ultimo decennio della sua vita (Marx era morto nel 1883) fu molto cauto nel criticare questi orientamenti. Peraltro, il clima culturale, dominato dall’evoluzionismo positivista – anche nelle scienze sociali e si pensi a Durkheim - assecondava e sosteneva questo corso di cose: la storia aveva una sua direzione di marcia, era dominata dalla legge fatale dell’evoluzione, che avrebbe spinto naturalmente il socialismo verso la vittoria.
 
Ne derivò una idea della lotta politica senza “salti”, come la natura, pertanto ogni rottura era rifiutata come un’avventura foriera di gravi pericoli. Sfortunatamente, non è vero che “natura non facit saltus” e, tantomeno la storia e la politica.
 
Esistono quei salti che dopo abbiamo imparato a chiamare “biforcazioni catastrofiche” e la riprova venne subito con la crisi finanziaria del 1907, con la 1° guerra mondiale, con il fascismo, con la crisi del 1929. Tutti fenomeni che la socialdemocrazia non capì e non seppe affrontare: di fronte alla guerra si piegò anche a votare i crediti di guerra, poi di fronte alla crisi del dopoguerra non seppe lontanamente che fare. Turati (…) non capì nulla del fascismo e così i capi della socialdemocrazia tedesca di fronte al nazismo. 

La sconfitta del movimento operaio fu equamente responsabilità delle impazienze del movimento comunista (per tutte, ricordiamo l’insurrezione spartachista) e delle “prudenze” della socialdemocrazia. Da allora, tutte le volte che un partito del movimento operaio si è trovato ad affrontare una lunga guerra di posizione è impercettibilmente scivolato in una sonnolenta routine riformista che lo ha reso incapace di riconoscere i momenti di crisi.
 
Il riformismo più o meno socialdemocratico, è pensiero politico adatto ai momenti ordinari della vita politica, ma quando arrivano i momenti di crisi del sistema, la socialdemocrazia, essendo interna al sistema stesso, non riesce a rendersene conto e regolarmente finisce travolta più degli altri, non avendo, come i liberali, il sostegno dei poteri forti.
 
Un socialdemocratico si riconosce da una cosa: che vuol fare la frittata, ma ha paura di rompere le uova. Il guaio è che quando arriva una crisi di sistema si solleva un’ondata di protesta popolare e se a dirigerla non sei tu, lo farà un altro. (…) A volte è l’essere troppo prudenti ad essere la posizione meno realistica. >> 


 << Ci fu un tempo in cui la sinistra si divise fra rivoluzionari, che volevano conquistare il potere con l’insurrezione armata e fondare, con un solo atto di volontà, un sistema sociale e politico totalmente diverso da quello esistente, e riformisti, che volevamo andare al potere con il voto, per cambiare il sistema attraverso una politica, appunto, di riforme graduali. (…)
 
Poi la “socialdemocrazia” accettò via via il sistema capitalistico, (…) mentre la sinistra “radicale”, abbandonata la prospettiva insurrezionale, manteneva l’aspirazione ad un diverso sistema sociale e si dichiarava “riformatrice” per distinguersi dai “riformisti” e pensava che le “riforme di struttura” potessero essere lo strumento idoneo a raggiungere l’obiettivo.
 
Per definizione, la sinistra riformista era “ritenuta interna al sistema”, mentre quella radicale “antisistema”, in riferimento alla sua alterità di sistema, a prescindere dai mezzi utilizzati per il cambiamento. Poi, man mano, anche la sinistra radicale (…) finì per accettare il sistema capitalistico, e ripiegò sulla difesa e l’espansione dello Stato Sociale.
 
In qualche modo, le politiche welfariste diventavano l’”alternativa interna al sistema”. Il sistema restava capitalistico, ma aperto ad una redistribuzione della ricchezza (in particolare attraverso la leva fiscale) ed alla modificazione delle gerarchie di classe attraverso le politiche sociali (in particolare l’istruzione e l’estensione dell’intervento statale in economia). Non si usciva dal sistema, ma lo si poteva modificare restando al suo interno, perché il sistema prevedeva alternative interne. (…)
 
Il presupposto comune a tutte queste posizioni è la possibilità di modificare la struttura economica attraverso l’azione politica (più moderatamente o più radicalmente), entro la cornice della sovranità dello stato nazionale. Anche la “rivoluzione mondiale” coltivata dall’Internazionale Comunista, scontava che la rivoluzione si affermasse nel contesto nazionale e la presa del potere avvenisse di contesto nazionale, in contesto nazionale. (…)
 
La rivoluzione neo-liberista [però] (…) ha distrutto questo presupposti:
 
1. affermando il primato della finanza sull’economia e dell’economia sulla politica.
 
2. costruendo un ordine gerarchico mondiale tendenzialmente monopolare (oggi in crisi) che riduce la sovranità degli stati nazionali.
 
3. sottraendo i grandi capitali finanziari al fisco, attraverso la mobilità mondiale dei capitali, che consente al “grande contribuente” di scegliere il fisco cui pagare le sue tasse.
 
4. attraverso la delocalizzazione produttiva e la liberalizzazione degli scambi commerciali che, inevitabilmente premia i paesi a costo del lavoro più basso e, quindi, agendo come attrattore verso il basso dei livelli salariali.
 
5. realizzando un sistema monetario sganciato dalla base aurea o, comunque, da parametri oggettivi e basato solo sull’apprezzamento reciproco delle monete, che fa dipendere la stabilità monetaria di ciascuno dalla dittatura del rating e dalle decisioni dei mercati finanziari, (…) di fatto, riducendo ai minimi termini la sovranità monetaria dei singoli paesi.
 
6. coprendo l’intero ambito rapporti economici a livello mondiale, con una fittissima rete di accordi e trattati internazionali (…) che precludono ogni politica diversa da quella neo-liberista e proibiscono esplicitamente l’intervento statale in economia.
 
7. impedendo ogni politica industriale nazionale, privatizzando le imprese pubbliche e promuovendo grandi fusioni internazionali a guida finanziaria.
 
8. liquidando i presupposti stessi dello stato sociale.
 
Di conseguenza, l’ordine neo-liberista ha carattere politicamente monistico e non ha spazio per una sinistra interna. Nel mondo della globalizzazione neo-liberista non c’è spazio per politiche keynesiane, per compromessi welfaristi e, di conseguenza, per ogni politica riformista. L’ordine neo-liberista non prevede alcuna sinistra interna, è tutto ed organicamente di destra. (…)
 
Ne consegue che occorre abbandonare la pratica istituzionale per passare a forme di lotta violente o addirittura armate ? Per nulla: (…) che si prenda il potere in un paese, tanto per via pacifica e legale, quanto per via violenta ed illegale, il problema non si sposta di un centimetro, perché il nuovo governo, comunque formatosi, avrebbe di fronte lo stesso problema: di fare i conti con un ordine mondiale ostile, dove l’unica variabile decisiva sarebbe quella dei rapporti di forza. (…)
 
Il che significa, [per la sinistra], che l’asse dell’azione politica si è spostata dall’arena nazionale a quella internazionale. >>
 
ALDO GIANNULI

18 commenti:

  1. Non mi e' chiaro quale sarebbe l'alternativa, e, peggio, se sarebbe poi cosi' alternativa. L'impressione e' che Giannuli si rifaccia a categorie di pensiero che suonano vetuste oltre che ingannevoli e truffaldine: e' la "sindrome da secolo breve", il famoso libro che e' riuscito a parlare puntigliosamente della storia del XX secolo per 500 pagine senza il minimo accenno ai gulag: tutto cio' che non e' utile alla tesi va ignorato, eliminato, cancellato.
    Ma appunto siamo sicuri che, nella metafora della sinistra, sia possibile un'organizzazione del formicaio che preveda invece del nuovo ordine neo-liberista, qualcos'altro che non sia il gulag o una sua forma dolce equivalente, sotto forma di big-brother orwelliano? Io non credo. E non lo credo perche' a non funzionare piu' e' il presupposto di base, quello della metafora del lavoro, della produzione, della fabbrica e dell'operaismo. Oggi a renderci schiavi e' il fatto che dobbiamo consumare per produrre, in omaggio alla retorica del lavoro come fine a se stesso, su cui fra l'altro e' fondata la nostra repubblica. Il socialismo con prevalenza del lavoro di Giannuli non e' contro la schiavitu', bensi' e' per la sua istituzionalizzazione, anzi costituzionalizzazione. Non e' solo anti-liberista, e nemmeno anti-liberale: e' anti-liberta'.

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    1. << Oggi a renderci schiavi e' il fatto che dobbiamo consumare per produrre >>

      Sono abbastanza d'accordo su questo punto, quanto meno in occidente (sul terzo mondo non mi pronuncio, perchè ho conoscenze troppo frammentarie).
      In effetti, all'alienazione da catena di montaggio si è sostituita quella da centro commerciale.
      La seconda - tutto sommato - mi sembra meno peggio della prima, ma mi rendo conto che sempre di alienazione si tratta.

      Quanto al mito della sinistra, mi pare evidente che il pensiero socialista - se applicato con rigorosa coerenza - sia sostanzialmente incapace di gestire una nazione.
      Non per nulla i fallimenti politici sono stati innumerevoli.
      Ma l'idea, in sè, resta fascinosa.

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    2. A dire il vero volevo piu' precisamente dire che se a grattare appena sotto la scorza si scopre che oggi la legislazione e la normazione sono congegnate per obbligarci a consumare beni e servizi per mantenere in piedi la struttura produttiva, pena il disastro economico per lo status-quo, il socialismo/comunismo, con la sua celebrazione del lavoro, e' primo responsabile dello stato di sostanziale dittatura in cui viviamo. O perlomeno e' responsabile assieme alla borghesia, da cui pare il concetto di lavoro come valore derivi. Secondo alcuni, MAI prima dell'avvent odella borghesia nella storia il lavoro e' stato visto come un valore in se' (ipocritamente, ma quando c'e' di mezzo borghesia o comunismo l'ipocrisia e' il minimo).

      In altre parole ancora, i produttori di beni e servizi oggi spesso impongono la loro merce con la forza, ad esempio acquistandola come bene pubblico per poi mandare il conto al contribuente che e' cosi' costretto a finanziarla (facendo i salti mortali, se e' nel mercato, per procurarsi i soldi), oppure creando una struttura normativa che ne imponga il consumo. Per la maggior parte di cio' che consumiamo oggi e' cosi' (pensate anche solo alla scuola, di cui per la stragrande maggioranza della gente sarebbe largamente sufficiente il livello elementare dello scrivere e far di conto, dato che all'oltre non e' minimamente interessata, e anzi lo vede come un gravoso fardello)

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  2. Prendo lo spunto da una articolo di oggi del quotidiano di Zurigo (NZZ), organo non ufficiale del partito liberale, che lamenta il diffondersi della mentalità statalista quando invece occorrebbe "privatizzare" (perché tutto funzioni meglio e a minor costo). Certamente questo discorso non è molto originale (mi sembra che anche in Italia la questione sia meno Stato più libertà). Ma mi sembra che ormai si discuta quasi ovunque di questo.
    L'articolo è stato commentato (finora, in brevissimo tempo) da ben 60 intervenuti alla discussion, in genere molto critici nei confronti del giornale e del liberismo. Il tenore è in genere: non è affatto vero che lo Stato gestisca male le sue imprese. E inoltre ci sono comparti che non possono essere basati sulla competitività e il profitto (comunicazioni, istruzione, sanità, beni essenziali come acqua e cibo ecc. che devono essere assicurati a tutti senza eccezione).
    Ecco, la domanda che io (mi) pongo è appunto: qual è il dovere dello Stato, quali sono i servizi che deve assicurare a tutti? Le cose già dette, immagino, poi possiamo aggiungerci anche la casa (come no, caspita se non è un diritto!), il lavoro (come no, è un diritto anche questo - dicono a sinistra). Poi dovrebbe anche garantire il diritto alla genitorialità (dicono alcuni giudici), ovviamente anche una moglie o un marito (se no che vita è?). Insomma, lo Stato deve creare il paradiso in terra (e con la tecnica - dice Severino - ormai ci siamo o quasi). Ogni desiderio deve essere esaudito perché un desiderio è un diritto umano.
    Com'è noto la costituzione americana riconosce all'individuo il perseguimento della felicità. Lascia liberi di realizzarsi come meglio si crede, ma non garantisce la felicità (che è una cosa molto soggettiva).
    Lo Stato deve/dovrebbe creare le condizioni per l'integrale sviluppo della persona umana (recita molto bene la costituzione italiana del dopoguerra). Le condizioni però, non di più. Ma già su queste condizioni ci accapiglieremo e prenderemo a pesci in faccia.
    Ai tempi di Cesare e Augusto lo Stato doveva provvedere al benessere dei cittadini: tutto però si riduceva a pane e giochi, non di più. Istruzione, sanità, pensione sociale ecc. non erano compresi.
    Ecco, mettiamoci d'accordo (non sarà facile, ma possibile) sui beni e i servizi a cui tutti (assolutamente tutti) hanno diritto, i cosiddetti diritti imprescrittibili della persona (Flores d'Arcais dixit). Anche il papa può dire la sua (come no, la libertà d'espressione è ormai garantita - almeno ce lo auguriamo anche in futuro). Sicuramente il papa ci metterà il diritto al finanziamento delle scuole cattoliche. Vabbè, se ne può discutere.
    Comunque più siamo e più si restringono gli spazi e i diritti individuali, il collettivo prevarrà sugli egoismi individuali (e il papa sarà contento almeno di questo).
    Tanti bei discorsi - diritto al cibo, all'acqua, alla salute ecc. ecc. - ma qualcuno deve produrre tutte queste belle e indispensabili cose (nel giardino dell'Eden non c'era bisogno di lavorare, ma chissà se era poi così bello non far niente).

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    1. << Ecco, mettiamoci d'accordo (non sarà facile, ma possibile) sui beni e i servizi a cui tutti (assolutamente tutti) hanno diritto, i cosiddetti diritti imprescrittibili della persona >>

      Hai detto niente, caro Sergio.
      Certo, in teoria di queste cose è possibile (ed anche desiderabile) discutere serenamente e provare a mettersi d'accordo.

      Ma non credo che si arriverà mai ad una soluzione, perchè le parti in causa hanno degli obbiettivi (ufficiali o meno) troppo diversi tra loro.
      Le elites vogliono semplicemente perpetuare il loro potere a qualsiasi costo, le classi medie vogliono potersi dedicare alle proprie attività ed arricchirsi senza troppi ostacoli, le classi popolari vogliono che lo stato dia loro tutto quello che, per un motivo o per l'altro, non riescono ad ottenere da soli.
      E come fai a raggiungere un'accordo ?

      Già solo la differenza fondamentale tra chi (quorum ego) poreferisce uno stato leggero (che si limiti a difendere i confini e a tutelare l'ordione pubblico) e chi vuole invece lo stato etico o addirittura lo stato "mamma", è abissale.

      D'altra parte lo stato ideale (La citta del sole, per citare Campanella) non è ancora stato trovato.
      E sono già passati migliaia di anni dalle prime comunità stanziali.

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  3. "nel giardino dell'Eden non c'era bisogno di lavorare, ma chissà se era poi così bello non far niente"

    Credo che nel giardino dell'eden (prima della cacciata dal paradiso che obbligo' a guadagnare il pane col sudore della fronte, cioe' col lavoro) ci si occupasse solo di caccia e raccolta, cose che oggi come oggi sono considerate sport, e probabilmente non per caso, bensi' per il fatto che si tratta di istintualita' utili alla sopravvivenza, esattamente come il sesso. E nell'eden della caccia e raccolta anche il sesso come lavoro credo fosse impossibile, dato che erano le donne a procurare la maggior parte del cibo...

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    1. Pare che in effetti la vita quotidiana dei cacciatori-raccoglitori fosse più tranquilla e meno stressante della nostra, con - peraltro - due notevoli eccezioni: la notevole conflittualità tra gruppi (che quando si incontravano, se le davano di santa ragione), e l'assenza di scorte alimentari per i momenti di magra.
      Non per nulla il loro livello demografico era molto basso (non c'era cibo a sufficienza per una popolazione maggiore).
      Poi, con l'agricoltura (la famosa cacciata dall'eden) sono cambiate molte cose, nel bene e nel male.

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  4. Navigando mi sono imbattuto in questo testo sull'uguaglianza che mi è piaciuto (anche per lo stile dell'autore che scrive in modo semplice e chiaro). Ormai l'argomento delle "pari opportunità", ovvero della lotta spietata contro ogni forma di discriminazione, è da noi in occidente prassi comune. Ma siccome le pari opportunità non bastano - superfluo spiegare perché - si sta sempre più imponendo anche il discorso dei "pari punti di arrivo". Dunque pari alla partenza e pari all'arrivo. Ma la cosa è fattibile solo con le tasse, ossia togliendo a quelli che per meriti e impegno personali, ma anche certamente per fortuna, raccomandazioni, entrature, hanno di più degli sfigati, sfortunati, perdigiorno, sfaticati. Ciò crea attriti e malumori e persino acerrimi conflitti. Ma il rimedio c'è: tasse, tasse, sempre più tasse. Così alla fine siamo tutti uguali (e anche contenti e felici? C'è da dubitarne.).
    Ma cediamo la parola a questo Gianni Pardo che mi pare persona ragionevole, di buon senso:

    http://pardonuovo.myblog.it/2015/11/29/luguaglianza/

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  5. Ho trovato carino anche quest'altro testo dello stesso autore (che mi sono segnato):

    http://pardonuovo.myblog.it/2015/11/27/lo-svantaggio-della-superiorita-umana/

    P.S. Noi continuiamo a crederci die Kröne der Schöpfung (la corona della creazione, il fiore dell'evoluzione). E commiseriamo il povero gatto privo di senso della bellezza e umorismo. Però però: un terzo dell'umanità non riesce a dormire, ha bisogno di sonniferi. Il gatto invece è semplicemente geniale: in qualsiasi luogo e ora della giornata si acciambella ed è subito nel regno di Orfeo. Un genio del sonno. Gli umani invece poveretti non riescono a prendere sonno nemmeno con una razione doppia di sonniferi. Probabilmente qualcosa va storto nella loro vita ...

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    1. << Noi continuiamo a crederci (...) la corona della creazione, il fiore dell'evoluzione. >>

      Molti, certo, credono ancora a queste sciocchezze (che sono - in fondo - il concetto centrale del cristianesimo), ma per fortuna non tutti.
      E mi sentirei di escludere che i biologi (soprattutto quelli evoluzionisti) pensino una cosa simile.
      Noi siamo semplicemente gli ultimi arrivati in ordine di tempo.
      Abbiamo avuto successo, certo, ed abbiamo invaso il mondo, ma - direi - a ben caro prezzo.
      E, soprattutto, non sappiamo ancora per quanto tempo...

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    2. D'altra parte e' inutile e ipocrita far finta che il nostro punto di vista possa non essere il nostro: lo e' anche quando fa finta di non esserlo, e cio' e' particolarmente evidente secondo me proprio nelle posizioni ecologistiche, che attribuiscono alla natura caratteristiche che in realta' sono proprie dell'uomo. Non e' molto diverso da cio' che succede per le divinita' e le religioni. Anzi, anche in questo caso si vede come l'ecologismo e il catastrofismo siano apparentabili ad una religione.

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    3. << si vede come l'ecologismo e il catastrofismo siano apparentabili ad una religione. >>

      Mah, non nego che per qualcuno possa essere così.
      In fondo la spinta verso una qualche forma di spiritualità (anche non religiosa) è sempre piuttosto forte tra gli uomini.

      Ma io, permettimi di dirlo, non mi ci riconosco per nulla e credo che lo stesso valga per molti altri "picchisti".
      E poi, siamo talmente sovrastati dal menefreghismo generale, che non mi sembra il caso di fare troppo i difficili con chi è sensibile a questi temi.

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    4. Il punto non e' la spiritualita', e' nel proiettare le proprie fisime come se fossero leggi universali. In questo possiamo riconoscerci benissimo.

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    5. Caro Diaz, se fossero davvero solo "fisime" sarei il primo ad esserne lieto.
      Tu non sai quanto desideri avere torto su questi argomenti (demografia e ambiente) ...

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    6. Non hai ne' torto ne' ragione: se togli la prospettiva antropocentrica viene meno ogni giudizio di valore, e ogni cosa semplicemente e'.

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    7. Certo.
      Ma la prospettiva "antropocentrica" mi interessa dannatamente, per il semplice motivo che io ci sono dentro.
      Non è che sono egoisti solo i "geni".
      Lo possono essere anche i fenotipi !

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    8. Sei un "antropocentrico"!
      E ritieniti offeso! ;)

      Divertitevi con questo blog, ha qualche articolo abbastanza geniale.
      http://incomaemeglio.blogspot.com/2015/12/tutto-luniverso-in-un-anno.html

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    9. << Sei un "antropocentrico"!
      E ritieniti offeso! ;) >>

      E sarebbe è un'offesa ?
      Certo che sono antropocentrico; perchè non dovrei esserlo ?
      Tutto sta ad esserlo in modo intelligente e... "consapevole" :-)

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