sabato 5 luglio 2014

Pax Romana - 2

Si conclude qui il post di Ugo Bardi sul ruolo dei metalli preziosi nel crollo dell’Impero Romano. Lumen
 
(seconda parte)

<< L'energia dell'Impero Romano proveniva dall'agricoltura; principalmente sotto forma di grano. All'inizio della loro storia e per diversi secoli a seguire, sembra che i Romani avessero pochi problemi o nessuno nel produrre abbastanza cibo per la loro popolazione.
Questo ha una certa logica, considerando che ai tempi dei Romani la popolazione europea era di meno di un decimo di quella di oggi e quindi c'era un sacco di spazio libero per le coltivazioni.
 
Le notizie di problemi alimentari nell'Impero appaiono solo col primo secolo EV (era volgare) e carestie veramente disastrose appaiono solo col quinto secolo EV, quando l'Impero Romano d'Occidente era già nella sua fase terminale. Il “picco del cibo”, apparentemente, arrivò molto più tardi, circa 3-4 secoli dopo quello dell'oro.
L'esistenza stessa di un “picco del cibo” per l'Impero Romano è qualcosa che lascia perplessi: l'agricoltura è, in linea di principio, una tecnologia rinnovabile che è stata in grado di alimentare la popolazione Romana per diversi secoli.
 
Durante l'ultimo periodo dell'Impero, non ci sono prove di un aumento di popolazione; al contrario, è chiaro che questa era calata. Allora, perché l'agricoltura non poteva produrre abbastanza cibo ?
Il problema è che produrre cibo non comporta solo arare qualche terreno e seminare colture. I rendimenti agricoli dipendono dai capricci del tempo e, ancora più importante, l'agricoltura ha la tendenza ad esaurire i terreni dal suolo fertile come conseguenza dell'erosione.
 
Per evitare questo problema, gli antichi avevano una serie di strategie: una era il nomadismo. Dal “De Bello Gallico” di Cesare apprendiamo che, nel primo secolo EV, le popolazioni europee avevano ancora uno stile di vita nomade.
Lo facevano per trovare nuova terra incontaminata e piantare colture nel suolo ricco che potevano produrre abbattendo e bruciando alberi. Questo era possibile perché l'Europa continentale, allora, era quasi vuota ed intere popolazioni potevano spostarsi senza impedimenti.
 
I Romani, invece, erano una popolazione stanziale e avevano il problema dell'esaurimento del suolo. Quando la popolazione crebbe, l'erosione divenne un problema, specialmente in regioni montagnose come l'Italia.
In aggiunta, alcuni centri urbani – come Roma – divennero così grandi che erano impossibili da alimentare usando solo risorse locali. Col primo secolo EV, la situazione portò allo sviluppo di un sofisticato sistema logistico basato su navi che portavano il grano a Roma dalle province africane, principalmente da Libia ed Egitto.
 
Era una grande impresa per la tecnologia del tempo assicurare che gli abitanti di Roma ricevessero abbastanza grano e proprio quando ne avevano bisogno.
Richiese grandi navi, impianti di stoccaggio e, più di tutto, una burocrazia centralizzata che andò sotto il nome di “annona” (dalla parola latina “annum”, anno). Questo sistema era così importante che Annona fu trasformata in una Dea a pieno titolo dalla propaganda imperiale. (…)
 
Nonostante la sua complessità, il sistema logistico Romano del grano ebbe successo nel sostituire l'insufficiente produzione italiana e permise di sfamare una città grande come Roma, la cui popolazione si avvicinava (e forse superava) un milione di abitanti durante i tempi d'oro dell'Impero.
Ma non era solo Roma che beneficiava del sistema di trasporto del grano e il sistema poté creare una densità di popolazione relativamente alta, concentrata lungo le coste del Mar Mediterraneo.

Era questa più alta densità di popolazione che diede ai Romani un vantaggio militare sui loro vicini settentrionali, i “barbari”, la cui popolazione era limitata dalla mancanza di un simile sistema logistico. 
Ma che cosa spostava il grano dalle coste dell'Africa a Roma? In parte, era il risultato del commercio. Per esempio, le compagnie che spedivano il grano erano in mani private e venivano pagate per il loro lavoro.

Ma il grano in sé non si spostava a causa del commercio: le province inviavano grano a Roma perché erano costrette a farlo. Dovevano pagare tasse al governo centrale e potevano farlo o in moneta o in natura. 
Sembra che i produttori di grano pagassero normalmente in natura e Roma non spediva nulla in cambio (eccetto in termini di truppe e burocrati). Quindi, l'intera operazione era un cattivo affare per le province ma, come sempre negli Imperi, rinunciare al sistema non era permesso.

Quando, nel 66 DC, gli Ebrei di Palestina decisero che non volevano pagare più le tasse a Roma, la loro ribellione fu schiacciata nel sangue e Gerusalemme fu saccheggiata. Alla fine, era la forza militare che teneva sotto controllo il sistema. 
Il sistema Romano dell'annona potrebbe non essere stato equo, ma funzionò bene e per lungo tempo: almeno per qualche secolo. Sembra che il sistema agricolo africano fosse gestito dai Romani con ragionevole cura e che fu possibile evitare l'erosione del suolo quasi fino alla fine stessa dell'Impero d'Occidente.

Notate anche che il sistema dell'annona non sembra essere stato condizionato - di per sé – dal deprezzamento del denarius d'argento. Questo è ragionevole: i produttori di grano non avevano scelta, non potevano esportare i loro prodotti a lunghe distanze e avevano soltanto un mercato: Roma e le altre grandi città dell'impero. 
Ma il sistema che alimentava la città di Roma sembra essere declinato, e alla fine collassato, durante il quinto secolo EV. Abbiamo alcune prove che fu in questo periodo che l'erosione trasformò le coste nordafricane dalla “cintura del grano” dei Romani al deserto che vediamo oggigiorno.

Probabilmente, il disastro era inevitabile, ma è anche vero che la guerra fa un sacco di danni all'agricoltura e questo è certamente vero per la regione nordafricana, oggetto di estese guerre durante l'ultimo periodo dell'Impero Romano. 
Più in generale, la tensione del sistema economico generata dalla guerra continua potrebbe aver portato i produttori a sfruttare troppo le loro risorse, privilegiando i guadagni a breve termine alla stabilità a lungo termine. Se non fosse per questi eventi, è probabile che la produttività agricola della terra avrebbe potuto essere mantenuta per un tempo molto più lungo. Ma così non è stato.

Con le terre nordafricane che si trasformavano rapidamente in un deserto, il Re Genserico dei Vandali (…), interruppe l'invio di grano a Roma nel 455 EV, procedendo poi a saccheggiare la città lo stesso anno.
Quella fu la vera fine di Roma, la cui popolazione si ridusse da almeno alcune centinaia di migliaia di persone a circa 50.000. Era la fine di un'era e le coste del Nord Africa non sarebbero mai più state esportatrici di cibo.
I sistemi complessi tendono a crollare in modo complesso e diversi fattori interconnessi giocarono un ruolo insieme, prima nel creare l'Impero Romano, poi nel distruggerlo.

All'inizio, fu un'innovazione tecnologica, il conio di metalli preziosi, che portò i Romani a sviluppare una grandezza militare che permise loro di accedere a risorse che sarebbero state impossibili da sfruttare altrimenti: i terreni agricoli nordafricani. 
Ma, come succede spesso, il meccanismo di sfruttamento era così efficiente che alla fine ha distrutto sé stesso. La produttività calante delle miniere di metallo prezioso ridussero l'efficienza del sistema militare Romano e questo, a sua volta, portò alla frammentazione e a guerre estese.

Le aumentate necessità di risorse per la guerra furono un fattore importante nella distruzione del sistema agricolo il cui collasso, a sua volta, mise fine all'Impero. (…)
Un sistema economico tende a sfruttare eccessivamente le risorse che usa. (…) Di conseguenza, gli Imperi raramente collassano dolcemente e tutti insieme, ma piuttosto tendono a frammentarsi e ad ingaggiare guerre intestine prima di scomparire veramente.
Questo fu il destino dell'Impero Romano, che ha sperimentato la legge generale per cui la potenza è niente senza controllo.
 
E' sempre stato affascinante vedere l'Impero Romano come uno specchio lontano della nostra civiltà.
E, infatti, vediamo che i punti di contatto sono molti. Pensate solo al sofisticato sistema logistico Romano: le navis oneraria che trasportavano grano dall'Africa a Roma sono l'equivalente delle nostre super petroliere che trasportano petrolio greggio dal Medio oriente ai paesi Occidentali.

E pensate come Cina ed India stiano giocando oggi lo stesso ruolo che giocavano nei remoti tempi dei Romani: sono centri di produzione che stanno gradualmente risucchiando la ricchezza dell'Impero che chiamiamo, oggi, “globalizzazione”. 
Detto questo, c'è anche un'ovvia differenza. Il sistema energetico Romano era basato sull'agricoltura e quindi era teoricamente rinnovabile, almeno finché i Romani non lo hanno sfruttato eccessivamente.

Quindi, tendiamo ad essere più preoccupati dell'esaurimento delle nostre risorse energetiche piuttosto che di quelle di oro e argento che – sembrerebbe – abbiamo potuto rimuovere in sicurezza dal nostro sistema finanziario senza problemi evidenti. 
Tuttavia, rimane il problema fondamentale che la potenza è inutile senza controllo. Il sistema di controllo dell'Impero della globalizzazione (…) è basato su un sofisticato sistema finanziario che, alla fine, funziona perché è integrato col sistema militare.

Nell'esercito globalizzato, i soldati, proprio come quelli Romani, vogliono essere pagati. E vogliono essere pagati con una moneta che possano riscattare con beni e servizi da qualche parte. Il dollaro ha, finora, giocato questo ruolo, ma lo può giocare per sempre?
Alla fine, tutto ciò che fanno gli esseri umani è basato su qualche forma di credenza di cosa abbia valore in questo mondo. I Romani vedevano l'oro e l'argento come magazzini di valore.

Per noi, c'è la credenza che i bit generati dentro dei computer siano magazzini di valore (…) e che non ci sarà mai un “picco dei bit” finché ci sono computer in giro; ma di sicuro un grande collasso finanziario non ci impoverirebbe soltanto, ma - più di tutto - distruggerebbe la nostra capacità di controllare le risorse energetiche di cui abbiamo così disperatamente bisogno. (…)
 
L'Impero Romano fu perduto quando il sistema finanziario cessò di essere in grado di controllare il sistema militare. Quando i Romani persero il loro oro, persero tutto.
Nel nostro caso, (…) se il dollaro perdesse la sua predominanza nel sistema finanziario mondiale, allora i produttori potrebbero essere tentati di tenere le proprie riserve di petrolio per sé o, almeno, non essere più così entusiasti di permettere all'Impero di accedervi. >>
 
UGO BARDI

8 commenti:

  1. Ho letto due volte questo testo (che ho trovato un po' barboso e scritto male), ma non si è accesa nessuna lampadina: ah, ecco, certo, interessante, illuminante, adesso capisco ...
    Lo stesso sottolineo qualcosa;

    "Quando, nel 66 DC, gli Ebrei di Palestina decisero che non volevano pagare più le tasse a Roma, la loro ribellione fu schiacciata nel sangue e Gerusalemme fu saccheggiata. Alla fine, era la forza militare che teneva sotto controllo il sistema."

    Già, la forza militare. Probabilmente anche oggi. C'è una sola potenza presente militarmente in tutto il mondo, l'unica superpotenza rimasta (ma la Russia le tiene ancora testa sul piano degli armamenti nucleari, donde il bisogno di tenerla d'occhio).
    Ma a che serve la forza militare dell'unica superpotenza rimasta? A esportare democrazia e benessere per creare un mondo più pacifico e bello?
    L'ex presidente tedesco Köhler affermò il diritto dell'impiego della forza militare per assicurare i rifornimenti al proprio paese. Anche per questo i tedeschi erano presenti in Afghanistan ...
    Naturalmente questa affermazione suscitò critiche e Köhler poco dopo si dimise. Però che non avesse anche un po' ragione? Già, i rifornimenti. Quante cose ci sono di cui un paese ha bisogno. Anche di mercati in cui vendere i propri prodotti ...
    Ma la fine è nota.

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  2. Caro Sergio, la forza militare serve, ovviamente, ad ottenere dei vantaggi materiali, principalmente energetici.
    Una volta era la cattura di schiavi, materie prime e metalli preziosi, oltre all'imposizione di tasse salate.
    Oggi è il controllo delle fonti energetiche più efficienti.

    Però la forza militare costa, costa moltissimo.
    Per questo molti vedono una crisi economica assai prossima per la potenza USA: perchè non ci sono più, a livello planetario, le condizioni per ottenere dalla loro forza militare (sempre molto onerosa) un ritorno economico almeno pari al suo costo.
    Ed è quello che, in fondo, successe all'impero romano.

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  3. ".... perchè non ci sono più, a livello planetario, le condizioni per ottenere dalla loro forza militare (sempre molto onerosa) un ritorno economico almeno pari al suo costo."

    L'impero romano era troppo esteso, era praticamente impossibile tenere tutto e tutti sotto controllo. Non appena i Romani avevano sedata una rivolta i rivoltosi ricominciavano ... Oggi poi i numeri sono di parecchie misure maggiori (300 mln di sapiens sapiens ai tempi di Cesare, 7,3 mld oggi). In più i sapiens sapiens odierni vogliono consumare a più non posso imbeccati anche dalla pubblicità (pubblicità progresso?). Insomma, stiamo piuttosto strettini e siamo tanto più voraci, per forza deve finir male. Già Leopardi osservava duecento anni fa che "descritto è il mondo in picciol carta". La forza militare non basta più, malgrado le meraviglie della tecnologia. Ci vorrebbe una maggior forza culturale, non per tenere i sapiens sotto controllo ma perché vivano meglio, siano magari anche felici (quel tanto che è dato ovviamente perché "la gioia piena a nessun mortal fu concessa" (Schiller - quello dell'Inno alla gioia!)).

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  4. << "la gioia piena a nessun mortal fu concessa" (Schiller) >>

    Che fa il paio con il'immortale "piacer figlio d'affanno" del precitato Leopardi.
    Ma forse la cosa è inevitabile: la gioia è un piacere così intenso che non può, per sua natura, essere anche duraturo.

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    1. "... la gioia è un piacere così intenso che non può, per sua natura, essere anche duraturo."

      Ma c'è una gioia che dura: quella cristiana (ma è una gioia piccola piccola). Un prete mi diceva che la felicità ha qualcosa di animale (uno scoppio di vitalità bestiale, per così dire), mentre la serenità o gioia cristiana ... fa bene alla salute (appunto perché non legata a un evento straordinario che ti fa salire di giri ma ovviamente passa). Cosa è meglio? Essere di tanto in tanto davvero felici o vivere tranquillamente, senza alti né bassi? Trionfo del momento o splendore della durata? Durare nella noia o vivere un giorno da leone? Una scelta difficile, non saprei rispondere. Pur propendendo per il quieto vivere mi sembra che quei momenti speciali di felicità siano ... impagabili. La vita della maggior parte delle persone è fatta di stereotipi, di frasi fatte. Per carità, anche gli stereotipi servono, ti facilitano l'esistenza, anzi senza stereotipi e frasi fatte faremmo fatica ad intenderci. Ma il pensiero vero non può essere una frase fatta.

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  5. << Cosa è meglio ? Essere di tanto in tanto davvero felici o vivere tranquillamente, senza alti né bassi? >>

    Caro Sergio, io credo che questa scelta, pur essendo ovviamente legata al carattere delle singole persone, sia soprattutto figlia degli eventi.

    Penso cioè che la maggioranza delle persone cerchi principalmente quella tranquillità a lungo termine che chiamiamo serenità.
    Siccome però la vita ci propone ugualmente (nonostante tutto il nostro impegno), dei momenti di infelicità e dolore, ecco allora che la loro cessazione ci consente di provare quella gioia piene d intensa (e quindi breve) che chiamiamo felicità.

    La quale, come tutti abbiamo sperimentato, non è ottenibile volontariamente, ma ci arriva quando meno ce lo aspettiamo.

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    1. "La quale [felicità], come tutti abbiamo sperimentato, non è ottenibile volontariamente, ma ci arriva quando meno ce lo aspettiamo."

      È questo il bello della felicità: che non è programmabile, non la puoi pretendere, è grazia (un dono inaspettato e persino immeritato del cielo - ovviamente non do una valenza religiosa all'evento, mi servo ahimè anch'io di frasi fatte ma che possono servire a capirsi). Poi ci sono le piccole e grandi felicità, ma anche le piccole contano e sono belle (per es. un'etimologia graziosa o interessante).
      Ma se la felicità è grazia, un dono che non si può pretendere, si può però preparare il terreno per accoglierla se o quando verrà. Per esempio mantenendosi in forma, fisicamente e spiritualmente, facendo cioè una vita sana, coltivando interessi e amicizie. Perché un depresso la felicità non la conoscerà mai, anche se bussasse alla sua porta. Certo può anche non bussare, ma se ci siamo preparati avremo avuto lo stesso una buona vita che è meglio di niente.

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  6. P.S. Mi piacerebbe tanto trovare un'amanita cesarea alias ovolo, il fungo principe dei Romani (difatti si trova anche a nord delle Alpi grazie alle loro scorrerie in Germania, ma è rarissimo e non si dovrebbe cogliere essendo protetto). Pensa un po' come sarei felice, mi basterebbe un ovolo. Ma anche un bel porcino non è male, basta accontentarsi. Io da anni di porcini non ne trovo, il cielo non vuol farmi questa grazia ...

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