sabato 11 gennaio 2014

Tra Inferno e Paradiso - 1

Non passa giorno che non giunga notizia di qualche uccisione o strage commessa “in nome di Dio”.
Verrebbe da chiedersi, innanzi tutto, perché mai ad uccidere i nemici di Dio devono pensarci gli uomini, anziché Dio stesso: non è in grado ? Non ha voglia ? E’ impegnato in altre cose ?
Ma il fanatismo religioso non si pone di queste semplici domande e procede imperterrito per la sua (sanguinosa) strada.
Il motivo si trova nella genesi psicologica di questa aberrazione, come ci spiega il grande antropologo e psicologo Luigi De Marchi, in queste pagine di grande interesse e, purtroppo, attualità.
LUMEN


<< E’ tempo di analizzare da vicino la dinamica psicologica del fanatismo religioso, perché essa ebbe un impatto immenso, che andò ben oltre l’ambito delle religioni e delle epoche che lo generarono.
Ai fini di quest’analisi, l’escatologia cristiana mi sembra l’esempio più valido e significativo, sia perché essa elabora e fonde i due massimi miti del giudaismo e dello zoroastrismo (il primo relativo alle origini e alla caduta dell’uomo, il secondo relativo alla sua futura salvezza ultraterrena e ai mezzi per conseguirla) aggiungendo la componente essenziale dell’intervento salvifico di Cristo, sia perchè il cristianesimo ha avuto un’influenza ineguagliata da qualsiasi altra religione sullo sviluppo della cultura moderna quale essa è oggi.

Il mito biblico dell’Eden mi sembra essenziale per vari motivi. In primo luogo, esso è la spiegazione forse più articolata, e certamente più diffusa, della condizione esistenziale umana in termini di disobbedienza, colpa e peccato.

Questa “spiegazione” ebbe effetti imponenti e drammatici sul modo in cui l’uomo fini per vedere se stesso. I concetti di peccato originale e d’intrinseca perversità dell’uomo con tutte le angosce, le flagellazioni, le penitenze e le persecuzioni che ne deriveranno, hanno qui la loro radice e giustificazione “logica”, mentre l’intervento salvatore di Cristo assume, nel quando del Peccato Originale, il valore d’un riscatto insostituibile da una condizione altrimenti irrimediabile di dannazione.

In secondo luogo, il mito dell’Eden radica nel passato la speranza della Salvezza e del Paradiso. L’uomo è caduto nella sua tragica condizione di sofferenza e di morte perché ha violato la Legge Divina, ma può riconquistare la felicità e l’immortalità, insomma il Paradiso Perduto, se riconosce il suo errore e torna a sottomettersi alla Legge Divina secondo gli insegnamenti dettati dal Profeta o Messia per conto della divinità stessa.

In questa concezione passato e futuro, Paradiso Terrestre e Paradiso Celeste, Paradiso Perduto e Paradiso Riconquistato (…) si collegano e confermano a vicenda come due montagne incantate svettanti sopra la valle di lacrime e morte della condizione umana.
In terzo luogo questo collegamento fra passato e presente e’ particolarmente evidenziato dalla profezia paolina (mutuata dallo zoroastrismo) “della resurrezione della carne”. E’ un tema che svela tutta l’ambivalenza della condanna cristiana della sessualità.
Da un lato il corpo e il sesso vengono odiati perchè sono stati causa nell’Eden della condanna dell’uomo alla sofferenza e alla morte e perchè in essi emerge in tutta la sua penosa crudeltà la corruttibilità della materia.

Ma dall’altro, l’attrazione insopprimibile e inconscia esercitata dalla sessualità riaffiora in questa visione della carne purificata quale forma suprema di felicità e interezza umana.
In quarto luogo, il mito attribuisce chiaramente alla donna la responsabilità della caduta, e quindi della morte. Questa proiezione del senso di colpa reattivo allo shock esistenziale ebbe un enorme impatto psicologico, sociale e culturale sulla condizione dell’uomo e della donna.

Mentre essa consentì all’uomo di alleviare i propri sensi di colpa, di recuperare una speranza di riscatto e di salvezza, di percepirsi e presentarsi come il tramite più qualificato (o meno squalificato) all’interpretazione della volontà divina, essa legittimò l’inferiorizzazione morale, sociale ed economica della donna, la sua esclusione dal sacerdozio e perfino, in certi periodi, la sua estromissione dalla cerchia delle attività religiose.
Del resto, se nella tradizione giudaico-cristiana e islamica questa discriminazione misogina ha trovato un’elaborazione più complessa, essa è presente più o meno in tutte le religioni: la donna è guardata dovunque con sospetto, come simbolo delle tentazioni o illusioni terrene che possono distrarre il Giusto dalla strada della virtù salvifica.

In quinto luogo, il mito biblico denuncia chiaramente la natura sessuale del peccato originale che ha portato alla caduta dell’uomo e alla sua cacciata dal Paradiso. Eva, sedotta dal Demonio, seduce a sua volta Adamo inducendolo a gustare il frutto proibito.
Tutto il testo biblico è intriso di allusioni sessuali: Satana ha forma di serpente (un classico simbolo fallico); la donna offre un frutto proibito (un altro classico simbolo sessuale di molti miti); Adamo ed Eva, appena gustato il frutto, “si vergognarono della loro nudità e cercarono di coprirsi”.

Se la caduta dell’uomo nel mondo della sofferenza e della morte - pensarono i teologi - era stata determinata dalla violazione del tabù sessuale imposto dalla volontà divina nel Paradiso Terrestre, la riconquista dell’immortalità e della felicità poteva fondarsi solo sulla rinuncia totale alla sessualità, “fons et origo” della perdizione umana.
È una simmetria logica che esprime una più profonda esigenza psicologica: se la morte è il supremo dolore, la punizione peggiore, essa può essere evitata o vinta solo infliggendosi la rinuncia alla suprema gioia terrena, appunto l’amore.

Prima ancora che strumento di gregarizzazione da parte di una società oppressiva (Reich), o strumento di sublimazione per una cultura destinata a essere nevrotica (Freud), il tabù sessuale appare dunque in quest’ottica una norma, un rituale auto-punitivo e propiziatorio con cui l’umanità primordiale e poi quella storica tentarono di riconciliarsi con la divinità adirata e dispensatrice di morte: “Rinuncia alla suprema felicità dell’amore su questa terra (…) e avrai la felicità suprema dopo la morte”. O più semplicemente: “Rinuncia a vivere sulla terra e avrai vita eterna nell’aldilà”.

Per chi sappia inquadrarli nella dinamica dello shock esistenziale, la religione in genere e il tabù sessuale in particolare, che l’analisi marxiana e quella reichiana riducono a puro strumento di dominio, appaiono piuttosto radicati in un bisogno profondo e antico di difesa contro l’angoscia di morte: un bisogno che spiega la persistenza e il ritorno tenace della religione e del tabù ben oltre il declino delle istituzioni ecclesiastiche e sociali di dominio che lo avevano storicamente imposto.

Soprattutto, la nuova prospettiva esistenziale svela che le strutture antiche e moderne di repressione non sono nate dal nulla al solo scopo di opprimere un’umanità altrimenti libera e felice, come ritennero Rousseau, Engels, Reich e tutti i pensatori di stampo naturalista, ma sono al contrario la prima, disperata difesa eretta dall’uomo primordiale contro l’orrore scatenato in lui dall’esperienza partecipativa alla morte del suo simile e dall’angosciosa presa di coscienza del proprio destino di morte.

Infine, il mito biblico dell’Eden contiene un’altra elaborazione dello shock esistenziale, che ebbe anch’essa enormi implicazioni per la storia umana, soprattutto in campo culturale e scientifico. Il testo biblico dice infatti che il frutto proibito (…) era il frutto dell’Albero della Conoscenza, della scienza del Bene e del Male.
Accanto alla connotazione sessuale, insomma, il Peccato Originale presenta, nel mito biblico, anche una connotazione cognitiva ed etica: la caduta, la sofferenza, la morte dell’uomo sarebbero cioè da attribuire (…) anche al desiderio di conoscere, di giudicare autonomamente il Bene e il Male. (…)

Sembra qui affiorare un’oscura intuizione o forse un’oscura memoria della fonte primordiale del dolore umano: appunto l’evoluzione coscienziale e conoscitiva, da cui è scaturita la scoperta del proprio destino di morte, con lo shock esistenziale e l’angoscia primaria e ricorrente della scimmia umana.
E ancora una volta, questo rapporto tra conoscenza e dolore viene interpretato in chiave punitiva: il dolore e la morte sono punizioni inflitte all’uomo per la colpa, il peccato, la disobbedienza da lui commessa cercando di conoscere.

Siamo qui dinnanzi alla scelta cruciale della scimmia umana. Da una parte sta il mito di Prometeo, che strappa agli dei il fuoco e si adopera per aiutare l’uomo nella sua faticosa evoluzione. Anche Prometeo viene punito (come voleva anche in Grecia la tradizione religiosa), ma non si pente nè si arrende: anzi, grida la sua ribellione cosmica.
Dall’altra c’è questo mito biblico dell’Eden, che insegna all’uomo che la sua condizione tragica è una giusta punizione inflittagli dalla divinità per aver disobbedito, per aver voluto amare e conoscere.

Fu questa scelta a prevalere nel mondo cristiano, e non solo in esso. Ma se da un lato possiamo rammaricarcene, per le pesanti implicazioni oscurantiste che ebbe, dall’altro non possiamo non comprendere quali tremende angosce abbiano indotto la scimmia cristiana a questa scelta, ammesso che scelta si possa chiamare.
Come la rinuncia alle gioie dell’amore, così anche la rinuncia a una conoscenza e ad una moralità autonome da imposizioni autoritarie e dogmatiche fu considerata per secoli, anzi millenni, condizione pregiudiziale alla riconquista del Paradiso Perduto: e ciò non solo nelle società religiose, ma anche in quelle atee.

Il supplizio di Galileo, di Giordano Bruno e di mille altri “eretici impenitenti”, la persecuzione della ricerca scientifica e filosofica indipendente, perfino il conformismo della cultura accademica e ufficiale hanno qui la loro radice.
È stato molto facile, per un certo pensiero rivoluzionario (…), ridurre la persecuzione della ricerca indipendente a mero strumento di dominio. Essa è stata ed è certamente anche questo.

Ma se immaginiamo la mescolanza di angoscia e superstizione, curiosità e terrore, speranza e disperazione con cui i potenti e le moltitudini dell’antichità si aggrappavano ai loro stregoni e sacerdoti, alle loro credenze, ai loro riti, possiamo ben capire quanta paura e quanta collera il pensiero indipendente potesse suscitare (…).
Esso infatti minacciava proprio quei dogmi, quelle credenze e quei riti che costituivano la principale difesa personale e sociale contro una nuova irruzione dello shock esistenziale e della relativa angoscia di morte. (…)

Proprio come la precipitazione dell’uomo nella sofferenza e nella morte era stata provocata, agli albori del mondo, dalla sua curiosità insaziabile, così un pensiero ribelle all’autorità religiosa (…) poteva definitivamente compromettere la speranza di riconquistare il paradiso perduto. >>

LUIGI DE MARCHI

(continua)

2 commenti:

  1. Questo discorso non mi convince del tutto. Certo è interessante, ma mi vengono spontanee non poche obiezioni che però è difficile esporre e discutere qui.
    Per cominciare potrei osservare che queste nostre benedette religioni sono relativamente recenti (direi che risalgono al massimo a cinquemila anni fa - l'uomo di Similaun, detto Ötzi, era religioso?). Dunque fioriscono decine di migliaia di anni dopo l'apparizione dell'h. sapiens. Alcune usanze che possiamo definire religiose (come la sepoltura dei morti) possono essere sicuramente molto antiche, più antiche delle religioni che conosciamo. Quando avviene lo shock primario?
    Non mi sembra che il peccato originale sia legato al sesso, anche se Adamo ed Eva si scoprono nudi dopo aver gustato del frutto proibito (identificato con una mela solo nel V. sec. d.C.!).
    Il peccato consiste nel voler essere pari a Dio (eritis sicut Deus - è interessante notare che Gesù nel vangelo dice la stessa cosa agli apostoli, ma come suggerimento positivo: sarete come Dèi!).
    Dunque peccato di superbia oltre che di disobbedienza (non dissimile dalla colpa di Lucifero).
    La sessuofobia cristiana direi che ha le sue origini nel supremo disprezzo delle cose terrene e sopra tutte proprio la fonte più intensa di piacere e che attrae maggiormente l'uomo (e la donna, per non discriminare nessuno!). I primi cristiani, compreso S. Paolo, erano in attesa della fine - che non veniva mai. Inizialmente il cristianesimo non era probabilmente nemmeno così sessuofobo come è diventato dopo, basta sentire il consiglio di Paolo ("se proprio non ne potete fare a meno e bruciate dal desiderio sposatevi pure" - citazione non testuale ma a senso).
    Il piacere, la gioia, la sete di sapere sono stati sempre mal visti dal cristianesimo (che però ha poi paradossalmente sviluppato un pensiero filosofico-teologico rispettabilissimo). Se si legge il "De contemptu mundi" di Innocenzo III si resta esterrefatti (XIII s.): il mondo fa semplicemente schifo e la donna fa doppiamente schifo! Oggi questa visione del mondo è da considerarsi semplicemente patologica, folle.
    Mi diceva una volta un prete che la felicità è o ha qualcosa di animalesco, cosa ben diversa dalla "serenità cristiana". Logico, perché la felicità è un sentimento vivo e profondo e in un certo senso incontrollabile (chi è felice non ha bisogno dei preti!), mentre una persona cristianamente serena è sotto controllo! Gli eccessi vanno banditi. Nei vangeli non si legge da nessuna parte: vista la mala parata Gesù e i suoi se la diedero a gambe! Un'immagine natrualmente disdicevole! Il mio professore di filosofia e vice vescovo di Coira richiamava i seminaristi che "volavano giù per le scale" all'ordine: non era un comportamento decoroso!
    Ma sono discorsi infiniti. Un'osservazione su De Marchi. L'ho conosciuto solo una decina d'anni fa perché un socio del MIDD (Movimento italiano per il decremento demografico) lo conosceva personalmente e lo apprezzava moltissimo. Ho così appreso che si era sempre battuto per l'educazione sessuale e il controllo demografico. Ho letto anche un suo libro, non ricordo più quale, con un capitolo dedicato alla demografia. La teoria dello shock primario non mi convinceva però. Può essere un'ipotesi plausibile e quindi fruttuosa, ma manca del requisito fondamentale: l'evidenza. De Marchi aveva un blog in cui si era alla fine rivelato come filo-berlusconiano suscitando scandalo fra i frequentatori. Lui chiuse il blog. Mah! Scomparve poco tempo dopo.
    Ho trovato interessante la sua teoria della nuova lotta di classe - non più tra imprenditori e dipendenti alias lavoratori, ma tra imprenditori e lavoratori contro la classe dei parassiti statali. Lui doveva essere un vero liberale antistatalista.

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  2. << Mi diceva una volta un prete che la felicità è o ha qualcosa di animalesco, cosa ben diversa dalla "serenità cristiana". Logico, perché la felicità è un sentimento vivo e profondo e in un certo senso incontrollabile (chi è felice non ha bisogno dei preti!), mentre una persona cristianamente serena è sotto controllo! >>

    Caro Sergio, molto interessante questa tua considerazione.
    In effetti la religione organizzata presuppone il controllo dei fedeli e quindi la felicità del singolo è il suo maggior nemico.
    Direi addirittura che le religioni hanno bisogno dei peccatori (e delle loro crisi di coscienza), perchè senza di essi non potrebbero dispensare il loro magistero.
    Quindi ti chiedono di non peccare, ma guai a loro se non pecchi (ed infatti - guarda caso - hanno posto delle regole tali per cui è impossibile non peccare).

    Quanto a De Marchi, io l'ho scoperto (come lettore) solo tardi, grazie al suo blog e mi sono trovato quasi sempre d'accordo con lui, sia sulla teoria dello shock primario (che ritengo molto convincente) sia su quella (più socio-politica) della nuova lotta di classe, che tu hai citato alla fine del commento.
    In ogni caso, un grande personaggio.

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