sabato 30 marzo 2013

Lo strano caso del Dr. Dennett e di Mr. Homunculus

Homunculus, chi era costui ? Ma che domande, l’Homunculus siamo noi stessi.
In campo cognitivo, infatti, si parla di Homunculus Cartesiano per indicare la parte più intima del sè, secondo l'idea che dentro di noi, da qualche parte nel nostro cervello, viva una persona che guarda il mondo attraverso i nostri occhi e comunica attraverso la nostra bocca.
Si tratta di un concetto affascinante, a cui facciamo inconsciamente riferimento quando parliamo di noi stessi, ma la cui validità scientifica è messa in forse (o addirittura demolita) da molti studiosi della mente.
Tra questi vi è lo scienziato americano Daniel Dennett, alle cui teorie è dedicato questo post. Il testo, in forma di breve compendio, è tratto dall’ottimo sito IL DIOGENE, a cui rimando per eventuali approfondimenti.
LUMEN


<< La conclusione di Dennett è che l'intenzionalità si basa su nozioni che possono essere definite pseudo-spiegazioni, poiché le convinzioni, i desideri o gli atti volitivi a cui essa fa riferimento, non costituiscono la vera causa del comportamento umano, ma sono semplici etichette per descrivere ed, eventualmente, prevedere il comportamento stesso.

L'intenzionalità, che deriva dalla psicologia del senso comune, non rappresenta un adeguato concetto esplicativo, dal momento che non può fare a meno di evocare una sorta di homunculus (eredità che ci deriva dalla concezione di Cartesio), posto alla base del nostro agire intenzionale e cosciente.

L'unico modo per eliminare l'homunculus è quello di ignorare la soggettività dell'individuo, concentrando la nostra attenzione sulla struttura reale del cervello.
In tal modo si può sostituire l'homunculus con tanti sottosistemi (folletti), ognuno dei quali svolge operazioni elementari: invece di parlare di fini o di intenzioni, analogamente a quanto avviene nei calcolatori, si può fare riferimento a sub-routine di un programma a cui vengono assegnati compiti semplici e ben specifici.

Dennett (…) ritiene che non ci sia una sostanziale differenza tra il modo di operare di un calcolatore e quello del cervello umano. In entrambi i casi si tratta di sistemi fisici, composti da un certo numero di sottosistemi. Non ha importanza il tipo di materiale con cui tali sistemi sono costruiti, bensì la funzione che essi svolgono.
Dennett non nega l'utilità di attingere dati dalla soggettività individuale, ma nello stesso tempo ci invita a considerare con sospetto questi dati.

L'evidenza con cui essi si presentano a un determinato soggetto non costituisce affatto una garanzia circa la loro veridicità. La capacità introspettiva della coscienza potrebbe addirittura essere frutto di un'illusione e noi non avremmo modo di smascherarla se ci affidassimo soltanto ad essa.
In una delle sue numerose argomentazioni, Dennett si richiama a Hume, all'analisi da questi condotta sul processo casuale.

Prima di Hume, tutti i tentativi di spiegare perché si crede nella casualità muovevano dal presupposto che, quando si osserva una causa e poi un effetto, non si fa altro che vederne la necessaria connessione.
Hume cercò di capovolgere questa impostazione, osservando che essendo noi tutti stati condizionati ad aspettarci l'effetto allorché vediamo una causa, siamo irresistibilmente portati a trarre l'inferenza, e ciò fa sorgere l'illusione di vedere la connessione necessaria che lega il succedersi dei due eventi.

Dennett propone una spiegazione analoga per la coscienza: «ci scopriamo a voler dire innumerevoli cose su ciò che sta accadendo in noi, e questo fa sorgere le varie teorie che spiegano come siamo capaci di dare resoconti introspettivi, tra le quali, ad esempio, quella ben nota ma semplicistica secondo la quale "percepiamo" questi avvenimenti con il nostro "occhio interiore"». (…)

Dennett critica la tendenza diffusa tra i ricercatori a pensare che i sistemi percettivi forniscano "segnali in ingresso" a una qualche area centrale del cervello, la quale, a sua volta, utilizzi tali segnali per impartire comandi relativamente periferici che controllano i movimenti del corpo.
Questo modello presuppone l'esistenza di un centro nel cervello verso il quale tutti i segnali convergono dando luogo al fenomeno della coscienza. Dennett chiama questa concezione Modello del Teatro Cartesiano, poiché andrebbe appunto fatta risalire a Cartesio.

Essa afferma l'esistenza di un ordine, di una linea d'arrivo in una parte definita del cervello, a seconda della quale l'ordine d'arrivo in quel punto corrisponde all'ordine con cui le esperienze "si presentano" al soggetto, poiché ciò che accade lì è precisamente ciò di cui diveniamo coscienti.
Il fatto è che noi non abbiamo esperienza diretta di quanto avviene sulla nostra retina, nelle nostre orecchie, sulla superficie della nostra pelle. Nella nostra effettiva esperienza rientra soltanto il prodotto finito di questi diversi processi di interpretazione.

Dennett riporta alcune situazioni sperimentali che mostrano come possiamo essere ingannati da ciò che appare.
Ad esempio, dati due fenomeni collegati tra loro in rapida successione, in certi casi accade che nel nostro vissuto soggettivo il secondo influenzi il primo, ancor prima di essersi verificato. (…)

L'unica spiegazione accettabile è che la percezione dei due eventi sia il risultato di una rielaborazione successiva. Le due esperienze distinte non fanno a tempo ad essere colte dalla coscienza come tali o, se ciò accade, esse vengono subito "spazzate via dalla memoria e sostituite da un documento falsificato" che ci presenta l'influenza del secondo evento sul primo come qualcosa di operante sin dall'inizio.
Alla luce di questi indizi sperimentali, Dennett giunge a concludere che non esiste un luogo centrale, un Teatro Cartesiano dove "tutto converge" per essere esaminato da un osservatore privilegiato.

La coscienza non sarebbe quindi una questione d'arrivo a un determinato luogo cerebrale, quanto piuttosto di attivazione che supera una certa soglia sull'intera corteccia o su larga parte di essa.
Al posto della concezione del Teatro Cartesiano, in cui opera un flusso lineare di processi che si succedono in maniera ordinata e sequenziale, Dennett propone quella delle Molteplici Versioni, costituita da un certo numero di circuiti in stretta interconnessione tra loro, che operano in parallelo.

Secondo tale concezione, l'unità dell'esperienza cosciente non viene ottenuta riconducendo l'attività dei diversi moduli in cui può essere idealmente suddivisa la corteccia cerebrale a un centro finale, che agisce da "collettore", bensì deriva dal loro funzionamento strettamente integrato e interdipendente.
In questa prospettiva, il Sé, l'Io a cui ciascuno di noi fa riferimento, si rivela essere soltanto una valida astrazione, una funzione teorica, piuttosto che un osservatore interno con il compito di raccogliere messaggi che provengono dalle varie zone del cervello.

Detto questo, il passo successivo discende quasi come una logica conseguenza.
Se il Sé - scrive Dennett - è soltanto il Centro di Gravità Narrativa, e se tutti i fenomeni della coscienza umana rappresentano soltanto i prodotti dell'attività di una macchina virtuale realizzata con connessioni variamente modificabili del cervello umano, allora, in linea di principio, un robot opportunamente "programmato" con un cervello costituito da un calcolatore al silicio, sarebbe cosciente, avrebbe un sé.

Dennett osserva che molte persone trovano molto poco credibile che un robot possa essere cosciente; esse sono portate a considerare tale ipotesi come una pura e semplice assurdità.
Effettivamente è piuttosto difficile immaginare come un calcolatore o una qualsiasi macchina cibernetica possa sviluppare la coscienza. (…)
Ma, secondo Dennett, è altrettanto difficile immaginare come un cervello umano organico possa sostenere la coscienza. Come potrebbe un complicato ammasso di interazioni elettrochimiche tra miliardi di neuroni equivalere alle esperienze coscienti ? (…)

Per concludere, la qualità dell'essere coscienti, per Dennett deriva unicamente da un certo tipo di organizzazione funzionale, e non dal fatto che si abbia a che fare con un cervello organico piuttosto che con un cervello costituito da un calcolatore elettronico.
Egli non trova una differenza sostanziale tra le due realizzazioni, essendo le loro attitudini legate all'insieme dei processi fisici che si svolgono in esse e non al materiale con cui sono costruiti. Non c'è altro da considerare, poiché le esperienze coscienti si identificano totalmente con gli eventi portatori di informazione al loro interno. >>


P.S. - Personalmente, nonostante l’attendibilità delle teorie di Dennett, continuo a restare affezionato al mio piccolo “homunculus” interiore, al quale non ho nessuna intenzione di rinunciare (anche perché, in fondo, ci conosciamo da una vita…).

LUMEN

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