sabato 30 aprile 2011

La lunga marcia (alle radici dell'Europa) - 2

(da "Le radici pagane dell'Europa", di Luciano Pellicani - seconda parte)


<< La civiltà dei diritti e delle libertà – non lo si ripeterà mai abbastanza – si è formata, attraverso una infinita teoria di conflitti di interessi e di valori, rivalutando tutto ciò (l’homo naturalis, l’eros, la felicità terrena, la ragione critica, la tolleranza, il pluralismo religioso, la libertà individuale, ecc.) che il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo, ha sempre negato e combattuto. 

Fondamentale, nel processo di istituzionalizzazione della libertà di coscienza e della tolleranza, è stata la privatizzazione della religione e, di conseguenza, la sua estromissione dalla sfera statale: esattamente ciò che, ancora oggi, la Chiesa non intende accettare, se è vero, come è vero, che Benedetto XVI, dopo aver riconosciuto che, con la Modernità, “la fondazione sacrale della storia e dell’esistenza statuale viene rigettata: la storia non si misura più in base a un’idea di Dio ad essa precedente e che le dà forma; lo Stato viene ormai inteso in termini puramente secolari, fondato sulla razionalità e sul volere dei cittadini”, ha soggiunto che “la tolleranza che ammette per così dire Dio come opinione privata, ma gli rifiuta il dominio pubblico, la realtà del mondo e la nostra vita, non è tolleranza ma ipocrisia”. 

Certo, il cattolicesimo riformulato dal Concilio Vaticano II non è il cattolicesimo del Sillabo: è un cristianesimo che dichiara che intende “ritrovare una libertà di movimento che l’armatura dottrinale, istituzionale, disciplinare, giuridica ereditata dal passato toglie o limita grandemente”; un cristianesimo che, depurato del suo spirito esclusivista, può dare il suo contributo alla costruzione della “giusta società” grazie soprattutto alla pratica della caritas, che è la cosa più preziosa che esso ha iniettato nella civiltà occidentale e sulla quale, a giusto titolo, ha molto insistito il vescovo Vincenzo Paglia. Ma, alla luce della teoria della tesi e dell’ipotesi, una teoria mai ufficialmente abbandonata dalla Chiesa, è più che legittimo chiedersi se la “chiamata di soccorso” rivolta al cristianesimo per rafforzare le difese morali dell’Occidente di fronte alla minaccia islamista non apra la strada a una ripresa dell’integralismo della Chiesa. 

Dopo tutto, non è passato neanche un secolo da quando Pio XI fece questa solenne dichiarazione, la cui franchezza rende superfluo ogni commento: “Se c’è un regime totalitario – totalitario di fatto e di diritto – è il regime della Chiesa, dato che l’uomo appartiene totalmente alla Chiesa”. 
E che, al fondo, la Chiesa cattolica non ha rinunciato alla pretesa di avere il monopolio della direzione intellettuale e morale dell’Europa, è confermato dall’omelia Pro eligendo romano pontefice pronunciata il 18 aprile 2005 da Joseph Ratzinger, nella quale si legge: “La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde, gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo al vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo, e così via […]. Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da ogni vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo, che non riconosce nulla di definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie”. 

Parole illuminanti, quelle di colui che si apprestava a salire sulla “Cattedra di Pietro”: il relativismo ridotto alla “dittatura delle voglie del singolo”, laddove esso è la base assiologica della civiltà dei diritti e delle libertà! La quale non ha assolutamente bisogno di un fondamento religioso; meno che mai di un fondamento teologico che si ispiri al Dio biblico, esclusivista e intollerante, che condanna come “figli di Satana” tutti coloro che non si sottomettono alla sua dispotica volontà. 
Non si può non essere d’accordo con Giovanni Reale, quando afferma che “sotto la proclamazione del pari valore di tutte le culture si cela un azzeramento dei valori”, vale a dire il nichilismo assiologico; ma ciò non legittima la sua tesi, secondo la quale, “tolto il concetto del Dio cristiano, si toglie eo ipso il concetto stesso di persona, preso nel suo pieno spessore ontologico”. Non si vede proprio perché mai il concetto di uomo come fine abbia bisogno di una base teologica su cui appoggiarsi. La dignità umana deve necessariamente essere fondata in un altro da sé? 

Non è stata forse proclamata, su basi rigorosamente laiche, sin dalla pubblicazione della splendida Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola?. E non è forse vero che i bisogni e i desideri dell’homo carnalis, quei bisogni e quei desideri che la civiltà moderna considera “naturali” e, precisamente per questo, pienamente legittimi, sono stati, per secoli e secoli, sistematicamente demonizzati e repressi da quella che Michel Onfray ha chiamato la “litania delle proibizioni”? 
Per rafforzare la sua tesi, Reale arriva a sottoscrivere il terroristico ammonimento di T. S. Eliot, secondo il quale “molti secoli di barbarie” ci attenderebbero se morisse il cristianesimo, poiché il cristianesimo è “tutta la nostra cultura”!. Non di questo avviso era Bonhoeffer, il quale non si è limitato ad affermare che “non possiamo essere onesti senza riconoscere che dobbiamo vivere nel mondo – etsi Deus non daretur”; ha anche così descritto l’Europa divenuta “adulta” grazie alla rivoluzione culturale attuata dall’Illuminismo: “L’uomo ha imparato a bastare a se stesso in tutte le questioni importanti, senza l’ausilio dell’ipotesi di lavoro  ‘Dio’. 

Nelle questioni riguardanti la scienza, l’arte, l’etica, questo è diventato un fatto scontato, che praticamente non si osa più mettere in discussione; ma da circa 100 anni ciò vale in misura sempre maggiore per le questioni religiose; si è visto che tutto funziona anche senza Dio, e non meno bene di prima. Esattamente come nel campo scientifico, anche nell’ambito generalmente umano Dio viene sempre più respinto fuori dalla vita e perde terreno”. I credenti hanno certamente il diritto che si riconosca il grande contributo che il cristianesimo ha dato alla costruzione della civiltà occidentale, non ultimo “la fatica disciplinata e incessante dei monaci che arrestò la marcia della barbarie nell’Europa occidentale e che rese di nuovo alla cultura terre che erano state abbandonate e spopolate al tempo delle invasioni”. 

E hanno anche il diritto che si riconosca che la morale cristiana, centrata sull’imperativo che “dobbiamo fare del bene al nostro prossimo per amore di Dio”, ha un ruolo altamente positivo in una società, come quella in cui viviamo, centrata sul mercato e dunque propensa a tutto sacrificare sull’altare di Mammona. Infine, hanno il diritto di sottolineare con forza che la speranza cristiana svolge una insostituibile funzione: quella di soddisfare il “bisogno di senso”, che urge, sia pure con diversa intensità, in tutti gli uomini. 

Ma, se vogliono essere onesti, devono riconoscere:
1) che, senza la battaglia condotta dagli illuministi contro il fanatismo e l’odio teologico, “si sarebbe continuato a bruciare eretici e torturare persone”;
2) che negli ultimi secoli i più importanti prodotti della cultura filosofica e scientifica poco o nulla devono alla tradizione cristiana;
3) che Bayle aveva ragione quando scriveva che “una società di atei si comporterebbe in maniera civile e morale proprio come qualsiasi altra società, purché facesse punire i delitti e annettesse onore o infamia a certe azioni”;
4) che è grazie alle istituzioni e ai valori della Città secolare che la micidiale carica di intolleranza contenuta nel Kerygma è stata disattivata;
5) che il cristianesimo non ha il monopolio della morale, dal momento che esiste una morale laica: la morale della ragione, della tolleranza e dei diritti inalienabili dell’uomo; infine,
6) che l’unico cristianesimo in armonia con lo spirito della Modernità è il cristianesimo liberale – il cristianesimo di Lord Acton e Maritain, di don Sturzo e De Gasperi –, che non fa il volto dell’arme ai valori dell’Illuminismo e vede nella laicità   “una garanzia per la religione”. 

Ma è proprio la Modernità che certi cristiani contestano frontalmente. Particolarmente istruttiva è la recente pubblicazione – firmata da quattro scienziati cattolici e un gesuita – nella quale si legge questo singolare apprezzamento della civiltà nata dalla emancipazione della società civile dalla tirannia spirituale del cristianesimo: 
 
“La Modernità, interamente fondata sull’emergenza storica della scienza, non vive che al livello del mito della scienza. Non è la razionalità né l’autonomia della coscienza individuale che pertanto la fonda, è l’esaltazione reattiva di una soggettività minacciata dalla omogeneizzazione della vita sociale.La Modernità non è la trasmutazione di tutti i valori, è la distruzione di tutti i valori antichi senza il loro superamento. Non c’è più né bene né male, ma non siamo per questo al di là del bene e del male. La Modernità non è la rivoluzione, anche se essa si articola su delle rivoluzioni (industriale, politica, rivoluzione dell’informazione, rivoluzione del benessere, ecc.). Essa è l’ombra della rivoluzione mancata, la sua parodia”. 
 
E’ appena il caso di sottolineare che il corollario logico di una tale grottesca lettura della civiltà dei diritti e delle libertà è che questa, essendosi sviluppata su basi rigorosamente laiche, è costitutivamente priva di una morale quale che sia.   

Non diversa la tesi avanzata, a metà degli anni Sessanta, dal costituzionalista cattolico Ernst-Wolfgang Böckenförde, secondo la quale “lo Stato liberale, secolarizzato vive di presupposti normativi che non può garantire”. Si tratta di una tesi estremamente insidiosa, in quanto – suggerendo che “soltanto la religione (cristiana), depositaria di tali presupposti normativi, è in grado di porvi rimedio” – propone quello che Bonhoeffer chiamava il “salto mortale all’indietro nel Medioevo”, cioè a dire la regressione storica dal principio (laico) della autonomia al principio (religioso) della eteronomia. 

Per la tradizione giudaico-cristiana, la Legge – esattamente come accade nella tradizione islamica – è la manifestazione della volontà di Dio: è una Legge rivelata, di fronte alla quale all’uomo non resta che sottomettersi, senza possibilità alcuna di metterla in discussione. Tant’è che San Giovanni Crisostomo non ha avuto esitazione alcuna a formulare il seguente teorema: “Quello che è fatto per volontà di Dio è ottimo anche se può sembrare malvagio; al contrario ciò che è fatto contro la volontà di Dio e gli dispiace, anche se viene giudicato ottimo, è invece pessimo e iniquo. Perciò, se qualcuno uccide un uomo, perché così vuole Dio, commette un omicidio che è meglio di qualsiasi atto di carità; e, ancora, se qualcuno risparmia un uomo, e lo tratta con indulgenza contro il volere di Dio, questa bontà è più criminale di un omicidio. Non è la natura dei fatti che rende le azioni buone o cattive, ma la volontà del Signore”. 
 
Radicalmente altra è la concezione laica delle leggi e dei valori morali che le ispirano. Essi sono il prodotto di un permanente dialogo fra una pluralità di soggetti, individui e gruppi organizzati, che si svolge in uno spazio pubblico nel quale sono garantite le libertà fondamentali, ivi compresa la libertà religiosa. 
 
La più preziosa eredità che ci ha lasciato il secolo dei Lumi è il principio del “pubblico uso della ragione in tutti i campi”, che postula la “libertà in tutto, in religione, in filosofia, in letteratura, in industria, in politica”: un principio cui non si può rinunciare senza regredire verso la barbarie della spietata caccia agli eretici, che l’Europa ha conosciuto quando non era sottomessa alla “dittatura del relativismo”; un principio che “si è trasferito nei fatti, è penetrato nelle nostre istituzioni e nei nostri costumi, si è unito a tutti gli aspetti della nostra vita” a tal punto che, qualora fosse abolito, “dovremmo cambiare d’un colpo tutta la nostra organizzazione morale”. 

Ma è proprio la cultura illuministica che la Chiesa cattolica, ancora oggi, considera il nemico da combattere. Ciò risulta con estrema chiarezza dalla lettura del libro-intervista Varcare la soglia della speranza, nel quale Giovanni Paolo II ha indicato nella “svolta antropocentrica della filosofia” la prima tappa verso il “processo di allontanamento dal Dio dei Padri, dal Dio di Gesù Cristo, dal Vangelo”. Iniziata da Cartesio e portata alle sue logiche conseguenze dagli illuministi, tale svolta ha colpito al “cuore tutta la soteriologia cristiana, cioè la riflessione teologica sulla salvezza, la dottrina evangelica sulla redenzione […]. 

Per la mentalità illuministica, il mondo non ha bisogno dell’amore di Dio. Il mondo è autosufficiente. E Dio, a sua volta, non è innanzitutto Amore. Semmai è Intelletto. Intelletto che eternamente conosce. Nessuno ha bisogno del suo intervento nel mondo che esiste, che è autosufficiente, trasparente alla conoscenza umana, grazie alla ricerca scientifica sempre più libero dai misteri, sempre più sottomesso all’uomo come inesauribile miniera di materie prime, all’uomo-demiurgo della moderna tecnica […]. Un mondo che appare come un grande cantiere di conoscenze elaborate dall’uomo, come progresso e civiltà, come moderno sistema di mezzi di comunicazione, come ordinamento di libertà democratiche senza alcuna limitazione”. 

E’ accaduto così che l’uomo emancipato dalla fede ha preteso di “vivere lasciandosi guidare esclusivamente dalla propria ragione, così come se Dio non esistesse, come se Dio si disinteressasse del mondo”. Di qui il rifiuto della “realtà del peccato e, in particolare, […] del peccato originale”; di qui l’edonismo e la ricerca della felicità sulla terra: una ricerca illusoria, poiché “questo mondo non è in grado di rendere felice l’uomo”.  Effettivamente, la rivoluzione culturale operata dall’Illuminismo ha posto fine all’“età della fede”, centrata sul dominio assoluto e incontrastato di Gerusalemme e sull’onnipresenza di “un Dio Poliziotto”, e, precisamente per questo, il cristianesimo ha cessato di essere il Grande Canone dell’Europa. 

Del tutto logico, pertanto, che sia stata respinta la richiesta che nel futuro Trattato costituzionale dell’Unione Europea fossero ricordate le radici cristiane della civiltà occidentale. L’Europa ormai è una realtà “meticcia”, nella quale sono, sì, presenti e operanti i valori cristiani; ma sono altresì presenti e operanti quei valori denunciati da Giovanni Paolo II come anti-cristiani. E sono questi ultimi – la ragione critica, la libertà d’errore, la religione come scelta individuale, la ricerca della felicità su questa terra, ecc. – che fanno aggio sui primi. D’altra parte, se le radici cristiane fossero state formalmente ricordate nella Costituzione europea, “sarebbe stata sancita la suddivisione dei cittadini in due categorie: quelli di prima categoria che credono a Dio come fonte di tutte le virtù, e quelli di seconda categoria, che sono pronti soltanto a rispettare tali valori universali”. 

Una suddivisione improponibile in una Europa divenuta, a motivo della invasione pacifica del “proletariato esterno”, una società multireligiosa, ove si contano a milioni coloro che non si identificano con il cristianesimo. Il che, poi, significa che il cristianesimo, nella Città secolare, è una tradizione fra tante altre tradizioni che convivono pacificamente grazie alle istituzioni dello Stato laico-liberale. Il quale non è punto quello che pensava Augusto Del Noce, cioè lo Stato che tollera a malapena la religione e “l’avversa e lentamente la spegne, anche senza avere bisogno di ricorrere a persecuzioni dirette”. 

Lo Stato nato dalla “rivoluzione della società civile” non va confuso – come ha fatto Etienne Gilson – con lo Stato ateista, quale fu lo Stato marx-leninista, sprofondato nel nulla storico con la caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica. E’ un regime politico che riconosce e tutela la più ampia libertà religiosa; e lo fa sulla base di un codice etico che scaturisce da quella “dittatura del relativismo” che la Chiesa, in nome della Verità rivelata, ancora oggi condanna e avversa.   

Sul punto, Hans Kelsen ha scritto pagine che conviene ricordare ai nostalgici dei “valori forti”, i quali sembrano aver dimenticato che “il contrario di relativismo è assolutismo” e che, fra l’assolutismo e il fondamentalismo, il passo è assai breve. “Da quando esiste la filosofia, – questo l’ incipit del saggio Assolutismo e relativismo nella filosofia e nella politica – esiste il tentativo di metterla in relazione con la politica, e questo tentativo ha portato oggi a riconoscere come un luogo comune il concetto che teoria e politica, e quella parte della filosofia che chiamiamo etica, siano intimamente connesse. Ma par strano assumere l’esistenza di un parallelismo esterno, o forse anche una relazione assai profonda, fra la politica e le branche della filosofia, come ad esempio l’epistemologia, la teoria della conoscenza e la teoria dei valori. 

E’ proprio all’interno di queste due teorie che l’antagonismo fra assolutismo filosofico e relativismo ha la sua sede, e questo antagonismo sembra essere, per molti aspetti, analogo all’opposizione fondamentale fra autocrazia e democrazia come a quella tra sostenitori, da un lato, dell’assolutismo politico e, dall’altro, del relativismo”. E così prosegue: “L’assolutismo filosofico è il riconoscimento di una realtà assoluta, di una realtà, cioè, che esiste indipendentemente dall’umana conoscenza, la cui esistenza è obbiettiva e non limitata nello e oltre lo spazio e il tempo, cui la conoscenza umana è riservata. Il relativismo filosofico, dall’altro alto, sostiene la dottrina empirica per cui la realtà esiste solo all’interno della conoscenza umana e, quale oggetto di conoscenza, è relativa al soggetto conoscente. 

L’assoluto, la cosa in sé, è oltre l’umana esperienza; essa è inaccessibile alla nostra conoscenza e perciò inconoscibile”. Ora, dal momento che “all’ammissione dell’essere assoluto corrisponde la possibilità della verità assoluta e dei valori assoluti”, la “personificazione dell’assoluto, la sua raffigurazione come l’onnipotente creatore dell’universo la cui volontà è legge della natura, così come dell’uomo, è l’inevitabile destino dell’assolutismo filosofico. La sua metafisica mostra una tendenza irresistibile al monoteismo religioso”. 
Tale tendenza “conduce irresistibilmente e ha sempre condotto a una situazione in cui chi asserisce di possedere il segreto del bene assoluto proclama il diritto di imporre la sua opinione, come la sua volontà, agli altri che sono nell’errore”; conduce, in altre parole, all’assolutismo politico, che è il sistema di dominio nel quale è tollerata una sola dottrina: quella, per l’appunto, che proclama di essere la verità assoluta, di fronte alla quale tutte le altre non possono che apparire come errori da combattere o, addirittura, come aberrazioni intellettuali e morali. 

La conclusione cui perviene Kelsen – una conclusione confermata puntualmente dalla storia, testimone imparziale – è che l’unico antidoto contro le tendenze autoritarie e totalitarie dell‘assolutismo filosofico (o religioso) è il relativismo, il quale, coerentemente alla sua modestia epistemologica, concepisce lo Stato come l’armatura giuridica, munita di coazione fisica, che garantisce quei valori – tolleranza, diritti della minoranza, libertà di parola e libertà di pensiero – “che non hanno diritto di cittadinanza in un sistema politico basato sulla fede in valori assoluti”. Relativismo, quindi, significa, in primo luogo, rifiuto dell’assolutismo filosofico (o religioso) che porta all’assolutismo politico; in secondo luogo, riconoscimento del “politeismo dei valori”, che richiede la vigenza di regole atte a garantire “la pacifica coesistenza, resa possibile dalla tolleranza, fra gruppi di persone con storie, culture e identità diverse”. 

Queste regole sono quelle dello Stato laico-liberale. Il quale, lungi dall’essere un regime politico senza radici morali, è l’istituzionalizzazione di un preciso codice etico, centrato sull’idea che ogni individuo è il titolare di un pacchetto di diritti,  il diritto d’errore  in primo luogo,  che nessuna autorità può calpestare. Certamente, esso non è la soluzione dei tanti problemi che travagliano il mondo attuale; ma, altrettanto certamente, la fuoriuscita dal suo quadro istituzionale e assiologico spingerebbe l’Europa verso una spaventosa regressione storica.  >>

LUCIANO PELLICANI

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