sabato 5 gennaio 2019

Il fascino dei Classici

Tutti coloro che amano, leggono o – quanto meno - conoscono i cosiddetti “classici”, si saranno posti, almeno una volta nella vita, l’inevitabile domanda di come possa essere definita la categoria, e credo che molti non siano mai riusciti a darsi una risposta definitiva.
Dell’argomento si è occupato anche il grande scrittore italiano Italo Calvino, che vi ha dedicato un saggio intitolato “Perché leggere i Classici“, nel quale, tra le altre cose, cerca appunto di rispondere alla domanda di cui sopra.
Al libro di Calvino, nonché ovviamente ai “libri classici” ed a tutti i loro appassionati, è dedicato il post che segue, tratto dal sito “Athenae Noctua“.
Ogni commento, critica o contributo alla discussione sarà più che gradito.
LUMEN


<< “Classico” è, nella sensibilità comune, un equivalente di 'tradizionale', 'canonico'. Quando si parla di un autore o di un testo del passato che ha avuto una grande risonanza in letteratura, nel pensiero o nella cultura generale, ci riferiamo in qualche modo ad un elemento sentito come autorevole. Etimologicamente, il termine 'classicus' si riferisce alla classe di cittadini più elevata; applicato agli autori, indica la percezione di un primato, di un ruolo-chiave nella storia letteraria. Nel tempo, 'classico' è diventato sinonimo di 'antico', 'tipico' e, nell'abbigliamento, di tendenze che sopravvivono a qualsiasi moda.

Ma quando ci riferiamo ad un libro, precisamente, cosa intendiamo definendolo un 'classico'? Ebbene, nessuno avrebbe potuto rispondere in maniera più competente e brillante di Italo Calvino che, oltre che autore di primo piano nella narrativa italiana, è stato anche un critico e un teorico della letteratura. Il suo saggio “Perché leggere i classici”, una raccolta di articoli scritti separatamente, si apre con una premessa, anzi, con una proposta di definizione.

1-I classici sono quei libri di cui si sente dire di solito: «Sto rileggendo...» e mai «Sto leggendo...»

2-Si dicono classici quei libri che costituiscono una ricchezza per chi li ha letti e amati; ma costituiscono una ricchezza non minore per chi si riserba la fortuna di leggerli per la prima volta nelle condizioni migliori per gustarli.

3-I classici sono libri che esercitano un’influenza particolare sia quando s’impongono come indimenticabili, sia quando si nascondono nelle pieghe della memoria mimetizzandosi da inconscio collettivo o individuale.

4-Dʹun classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima.

5-Dʹun classico ogni prima lettura è in realtà una rilettura.

6-Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire.

7-I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).

8-Un classico è un'opera che provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso.

9-I classici sono libri che quanto più si crede di conoscerli per sentito dire, tanto più quando si leggono davvero si trovano nuovi, inaspettati, inediti.

10-Chiamasi classico un libro che si configura come equivalente dell’universo, al pari degli antichi talismani.

11-Il «tuo» classico è quello che non può esserti indifferente e che ti serve per definire te stesso in rapporto e magari in contrasto con lui.

12-Un classico è un libro che viene prima di altri classici; ma chi ha letto prima gli altri e poi legge quello, riconosce subito il suo posto nella genealogia.

13-È classico ciò che tende a relegare l’attualità al rango di rumore di fondo, ma nello stesso tempo di questo rumore di fondo non può fare a meno.

14-È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona.

Il dato di maggiore evidenza nelle definizioni di Calvino (inserite in una trattazione organica che vi invito a leggere) è, a mio avviso, la risonanza: un classico si riconosce in quanto persiste in un immaginario pregresso e, nel momento in cui viene conosciuto, si carica di nuovi significati che cambiano a seconda delle esperienze personali e del tempo in cui si colloca il lettore. Possiamo sorprenderci a riconoscere in un classico che leggiamo per la prima volta un pensiero che abitava già nella nostra mente e sentirci come stupiti di questo nuovo incontro (che è un po'la sensazione del sublime):

Non necessariamente il classico ci insegna qualcosa che non sapevamo; alle volte vi scopriamo qualcosa che avevamo sempre saputo (o creduto di sapere) ma non sapevamo che l’aveva detto lui per primo [...] E anche questa è una sorpresa che dà molta soddisfazione, come sempre la scoperta d’una origine, d’una relazione, d’una appartenenza.

Nel nostro dialogo con l'opera, possiamo individuare un senso che scaturisce dalla nostra sensibilità oppure che era già insito nelle intenzioni dell'autore. Nella rilettura possiamo scoprire particolari del tutto nuovi, che si svelano perché è cambiato il nostro punto di osservazione, la prospettiva attraverso la quale scorriamo le parole. Insomma, il classico è ciò che, anche se lontano del tempo, non smette mai di comunicare con noi, senza per questo imporsi prepotentemente rispetto al moderno e al contemporaneo, anzi, rimarcando quanto anche l'attualità e il progresso servano ad alimentare un rumore di fondo che non disturba ma arricchisce quella stessa comunicazione.

Questa comunicazione, tuttavia, deve avere come premessa una passione, una ricerca spontanea e disinteressata, perché la 'scintilla' deve scoccare da sola, non può essere forzata. Bando all'affanno del dover leggere, alla vergogna del non aver letto un determinato titolo: «È solo nelle letture disinteressate che può accadere d’imbatterti nel libro che diventa il 'tuo' libro».

Leggere un classico, dunque, non è né indispensabile né imprescindibile, anzi, in chiusura al suo intervento, Calvino suggerisce che l'unica, vera ragione per leggere i classici vada oltre (perché, evidentemente, le riassume tutte) le sue quattordici note: «La sola ragione che si può addurre è che leggere i classici è meglio che non leggere i classici».

La comunicazione, la cultura, l'esperienza non sono mai eccessive, sceglierle non è una fatica vana, perché una conoscenza in più è sempre una dote, anche se non sfruttabile nella pratica, anche se non numericamente quantificabile. Ecco perché Calvino chiude la sua proposta di definizione citando Emil Cioran: Mentre veniva preparata la cicuta, Socrate stava imparando un’aria sul flauto. «A cosa ti servirà?» gli fu chiesto. «A sapere quest’aria prima di morire». >>

CRISTINA M.

15 commenti:

  1. Caro Lumen,

    già il titolo - il fascino dei classici - mi lascia perplesso. I classici affascinano ancora, davvero? Ma va', chi li legge più. E poi tanti cosiddetti e venerati classici si possono anche mettere da parte: sono noiosi, inutili.
    Italo Calvino mi piaceva, anzi mi piace ancora, nonostante i suoi noiosi Baroni rampanti e Visconti dimezzati (molto più carino Ti con zero). Ma più che il narratore a me piace(va) il saggista, l'intellettuale. Calvino per formazione conosceva i classici (alcuni, forse molti, magari moltissimi ma non tutti, cosa impossibile). La sua difesa dei classici mi pare ingenua e anche ridondante, stucchevole. Poi semplificherei la questione. Invece di ben 14 punti per definire un classico a me ne bastano due. Cosa è un classico? Prima di tutto un autore che la scuola, cioè la società, ti ha obbligato a leggere rendendotelo magari odioso. Ma è il compito della scuola che deve o dovrebbe tramandare il meglio della tradizione. Poi ci sono i classici, antichi ma anche contemporanei, che uno scopre da sé guardandosi intorno. Autori di cui non aveva mai sentito parlare a scuola e che lui trova geniali, entusiasmanti. Diventeranno i "suoi" autori con cui intratterrà lunghi rapporti, forse tutta la vita (di qualcuno con l'età inevitabilmente si disamorerà). Ci sono dunque i classici scolastici che non intendo minimamente sminuire e tutti gli altri autori che vengono chiamati classici perché sono antichi oppure perché riscuotono generale ammirazione (certi contemporanei). C'era una collana Mondadori con questo titolo, Classici contemporanei. Ma può davvero un autore moderno essere definito un classico? Che so Pirandello, Moravia, Morante, Natalia Ginzburg, Tomasi di Lampedusa, lo stesso Calvino sono dei classici? Sì e no. A un classico attribuiamo qualità intrinseche dell'opera, non dipendenti da una moda. Ma gli autori moderni non si possono ancora situare bene. Mi è capitato di dire: questi "Cento anni di solitudine" di Márquez hanno buone probabilità di diventare un classico, cioè resisteranno al tempo, saranno letti e riletti anche dalle prossime generazioni. Che svista! Quel libro di Márquez mi piacque, mi divertì moltissimo, ma non l'ho più riletto e non intendo più farlo, sono stato costretto a declassarlo, come anche l'autore. Un autore di cui posso fare a meno, come pure di tanti classici stagionati e ancora riproposti, non si sa bene perché. Ho letto solo recentemente "Piccolo mondo antico" di Fogazzaro. Che scemenza, che noia. Eppure vedo che tutte le maggiori case editrici hanno quest'opera un tempo famosa in catalogo! Dopo quasi un secolo e mezzo si ristampa ancora - e immagino si legga pure - "Piccolo mondo antico". Un classico.
    Direi per concludere che ci sono i classici col pedigrée, soprattutto perché hanno molti anni o secoli, i classici moderni e contemporanei che hanno ormai una fama consolidata, e poi i "nostri classici" - quelli che abbiamo scoperto noi o che per un qualsiasi motivo consideriamo importanti, imperdibili.
    Dubito che la gente comune, che non ha una formazione classica o letteraria, possa trarre godimento e frutto dalla lettura (più che rilettura) dell'Orlando furioso o della Gerusalemme liberata - che nemmeno tu ti sogni di rileggere pur venendo dal liceo classico. Sono dunque classici che si possono dimenticare e che forse anche la scuola può trascurare (c'è chi pretende l'eliminazione di Dante per il suo sadismo, l'omofobia, la difficoltà di comprensione, l'oscurità).

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    1. << c'è chi pretende l'eliminazione di Dante per il suo sadismo, l'omofobia, la difficoltà di comprensione, l'oscurità >>

      Caro Sergio, questa non la sapevo.
      I primi due motivi sono ridicoli: un classico deve essere preso per le sue parti migliori, quelle che durano nel tempo, ben sapendo che per alcune cose è pur sempre figlio del suo tempo ed quindi passibile (ma solo per quelle cose) di riserva.

      Le secondo due invece sono vere, ma dipendono soltanto dal fatto che la lingua e la cultura simbolica cambiano inevitabilmente nel tempo (e qui parliamo di secoli).
      Basta disporre di una buona parafrasi, con un agile commentario dei riferimenti, per capire subito tutto e godersi la lettura.

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  2. «Perché leggere i classici»

    È sottinteso che ne vale la pena. Ma è chiaro che Calvino pensa soprattutto ai "suoi" classici (Omero, Ovidio, Tolstoi ecc.). Non credo che considerasse un classico Vittorio Alfieri, ormai solo un vecchio autore (che allestisce più una delle sue ridicole tragedie, al contrario Goldoni è ancora vivo). Ecco, un classico è un autore ancora vivo, che interessa, piace, entusiasma.
    Ho tirato giù dallo scaffale "Perché leggere i classici", uno dei pochi, pochissimi libri che ho cominciato e che poi ho messo da parte, non sono riuscito a finire. Ma chissà che non ci riprovi di nuovo (per amore di Calvino, sicuramente un autore rispettabile, ammirevole, ma anche freddo, gelido).
    Copio qui sotto le mie noterelle in fondo ai capitoli che ho letto.

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    1. Credo che Calvino abbia fatto un po' di confusione tra i classici collettivi, quelli considerati tali da tutta la società, e quelli personali.
      Secono me, i veri "classici" sono soltanti i primi, in quanto condivisi, mentre i secondi possono essere meglio descritti con l'espressione francese "livres del chevet".
      E per questi ultimi ogni soggettivitò rimane lecita.

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  3. «Ovidio e la contiguità universale»

    Santo cielo, pezzo ancora più noioso e quindi inutile del precedente (*Le Odissee nell'Odissea"). Sono davvero perplesso, spero che non continui così. Vedo purtroppo che i prossimi capitoli trattano di opere classiche antiche: buona notte!
    Calvino poi si contraddice: consiglia di saltare a pie' pari le introduzioni ai classici (di solito noiose, pesantissime, specie nelle edizioni italiane - utilissime invece le introduzioni dei classici della Pléiade, informative, leggibilissime), ma poi scrive lui stesso interpretazioni veramente noiose come quelle appena lette e - temo - anche le prossime. Comunque non mollo ancora (invece mollai). Certo da Calvino speravo e mi aspettavo di più. Ma ci sono due Calvini: il narratore (piacevole, accattivante, ma niente di più) e il saggista, acuto, perspicace, che ti apre orizzonti. Le mie preferenze vanno ovviamente a quest'ultimo.

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  4. «Pasternak e la rivoluzione»

    Riletto questo saggio ormai vecchio di mezzo secolo, subito dopo aver visto per la prima volta "Il dottor Zivago" di David Clean (quarant'anni dopo che fu girato!). Il film non mi è molto piaciuto, ma mi piace ancor meno questa semistroncatura del romanzo di Calvino dell'epoca. Giuste alcune osservazioni (Zivago è un personaggio evanescente, quasi scialbo, ma nemmeno Lara - per Calvino la vera protagonista del romanzo - mi convince). Pasternak fu un "caso" forse più politico che letterario. È stato un grande romanziere e poeta? Non lo so. Ma chi legge ancora Pasternak? Quando uscì tutti leggevano Pasternak, anche la donna di servizio (potenza della propaganda antisovietica oppure nel libro c'è davvero qua e là qualcosa di valido, poetico?).

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  5. Il tramonto della civiltà letteraria

    Trent'anni fa lessi un affermazione di Leonardo Sciascia che mi spiazzò. Sosteneva che la la civiltà letteraria era al tramonto, sostituita dalla civiltà dell'immagine. Io non m'ero accorto di questo cambio di civiltà e in più - che ingenuo - credevo ancora nel valore della letteratura. Poi quest'affermazione era fatta da un autentito letterato che aveva passato la vita leggendo e scrivendo. Sciascia aggiungeva poi: il giorno in cui nessuno più proverà piacere a leggere L'isola del tesoro di Stevenson, sarà davvero la fine di una civiltà. Incuriosito sono andato a rileggermi L'isola del tesoro che ho trovato semplicemente ridicolo. Effettivamente se questi sono i classici, cioè le opere pretese immortali, possiamo scrivere l'epitaffio della civiltà letteraria.
    Ma io non ci credo ancora - e continuo a leggere, soprattutto rileggere, i classici che ho amato. Tuttavia riconosco che l'importanza della letteratura è calata. I romanzi erano una volta, nell'Ottocento e anche dopo, fonti di esperienze e informazioni. Si leggevano per evasione, ma anche per apprendere cose che non si conoscevano, assenti dalla propria vita ristretta e noiosa. Oggi siamo bombardati da informazioni giorno e notte, i romanzi non servono più per questo. Thomas Mann ha scritto un romanzo che gli è valso il Nobel - «Buddenbrooks» - in cui descrive la decadenza e il crollo di una famiglia di commercianti. Per descriverli Th. Mann ha dovuto informarsi lui stesso di commercio. Qualcuno ha osservato giustamente che oggi Th. Mann dovrebbe farsi un bel po' di letture in più per descrivere - che so - l'ascesa e il crollo dell'impero Fiat.
    Dunque a quello scopo - informare, narrare cose fuori dall'ordinario comune - i romanzieri non servono più. Io non leggo più romanzi, passati i tempi in cui bisognava aver letto il premio Strega o Campiello - ma chissenefrega!

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    1. << Trent'anni fa lessi un affermazione di Leonardo Sciascia che mi spiazzò. Sosteneva che la la civiltà letteraria era al tramonto, sostituita dalla civiltà dell'immagine. >>


      Caro Sergio, credo che Sciascia, con grande lungimiranza, avesse ragione.
      Oggi la maggioranza dei nostri ragazzi non è più abituata a confrontarsi con il testo scritto e strutturato, se non in modo superficiale.
      E le immagini sono davvero (quasi) tutto, tanto che ci bombardano in ogni momento della nostra vita: basti pensare al peso ben differente che hanno i testi e le immagini nell'oggetto cult dei nostri tempi, ovvero lo smart-phone.

      Ma questo, secondo me, non vale per tutti.
      Sono convinto che le élites, ai propri rampolli, continuano ad insegnare tutte le regole del buon leggere e del ben scrivere: da cui discenderà una nuova frattura tra le élites ed il popolo, fondata sulla capacità di maneggiare adeguatamente la lingua scritta (che resta assolutamente fondamentale, checchè se ne dica).
      In fondo una volta c'erano quelli che sapevano leggere e scrivere, e quelli che restavano analfabeti.
      I tempi cambiano, ma certi meccanismi restano.

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  6. Penso anch'io. Da un lato la massa degli analfabeti smart che pensano a forza di piace, non mi piace - e dall'altro quelli che sanno pensare davvero, che non si spaventano davanti a una subordinata. Come forse sai l'ONU propaganda l'uso della Lingua Facile che tutti capiscono. Se s'imponesse questo strumento tutti i classici risulterebbero presto indigesti, incomprensibili, in fondo inutili per gli analfabeti smart. Non si potrà mica pretendere da un analfabeta smart che legga una frase di Thomas Mann di mezza pagina (che invece a noi risulta leggibilissima, godibilissima, comprensibile, elegante). Uno dei miei autori preferiti è Heinrich von Kleist che è una specie di Thomas Mann al quadrato. È il suo stile, forse unico, ma è una prosa avvincente, che toglie il fiato. Ma poi penso che per una persona normale con smartphone Kleist è improponibile.
    Si può pensare senza formare nemmeno una subordinata? Non lo escluderei. Il fascino di Puskin è la semplicità, non ci sono quasi subordinate nella sua prosa, la paratassi domina, ma è lo stesso attraente, piacevole, comprensibile. Ma la semplicità di Puskin non è spontanea, naturale: è un approdo, è arte, frutto di meditazioni.
    Una volta le difficoltà non spaventavano, bisognava imparare, impegnarsi. Ma l'impegno è oggi considerato ingrato e in fondo inutile. Perché devo scervellarmi per capire Dante e Boccaccio? Al diavolo tutti e due. Il Decameron non è facile da leggere, tanto che Aldo Busi ne ha fatto una traduzione a uso scolastico (e non solo).
    Siamo dunque al punto di dover tradurre Boccaccio perché troppo difficile. Io difatti lo leggo in traduzione tedesca, molto più facile dell'originale. Il traduttore, un filosofo tedesco, Kurt Flasch, innamorato di Boccaccio ne ha fatto una traduzione in cui riduce le subordinate con un ottimo risultato: la lettura è più facile, gradevole.

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    1. << Una volta le difficoltà non spaventavano, bisognava imparare, impegnarsi. Ma l'impegno è oggi considerato ingrato e in fondo inutile. >>

      Con la conseguenza - tra le altre cose - che il nostro cervello, che si sviluppa e si potenzia proprio con il continuo utilizzo, rimane parzialmente inespresso.

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    2. << Si può pensare senza formare nemmeno una subordinata? Non lo escluderei. >>

      Neppure io, ma si resta limitati al pensiero semplice, che è 'cugino primo' di quello semplicistico.

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  7. Ormai parecchi anni fa trovai quella qui presentata come Def.ne n°6 sul retro di Copertina dell'Edizione appena acquistata (usata ma ancora in buono stato) del 'Discorso sul metodo' di Descartes: ecco un ottimo esempio di Classico, sorta di "turning point" del pensiero (non soltanto) occidentale, al di là del dualismo tra Res extensa e R. cogitans inserito dall'Autore probab.te per evitare l'incriminazione da parte dell'Inquisizione romana... Saluti

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    1. Può darsi che Cartesio abbia dovuto inserire il suo famoso dualismo 'corpo/mente' per evitare le ire dell'inquisizione ed in tal caso ha tutta la mia umana comprensione.

      Resta il fatto che quel dualismo ha rappresentato una palla al piede notevole per tutta la ricerca scientifica antropologica dei secoli a venire, ed ancora oggi, nella percezione comune, resta un punto fermo che pochissimi osano mettere in discussione.

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    2. "Resta il fatto (...) in discussione"

      Indubbiamente: basti pensare al brillante saggio di Damasio su 'L'errore di Cartesio' (ormai a propria volta quasi un Classico della buona divulgazione scientifica...)
      A lungo mi sono chiesto x quali motivi un genio della Filosofia & della Matematica come Descartes abbia partorito una teoria grottesca come quella della ghiandola pineale (ipotetico traite-de-union tra Corpo e Mente), d'altra parte anche i grandi personaggi hanno le proprie debolezze e inoltre l'allora recente condanna di Galilei (come ormai acclarato dagli studiosi) aveva impressionato in maniera non marginale il pensatore francese... Saluti

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    3. A proposito del libro di Damasio, da te opportunamente citato, ecco l'incipit della nota di presentazione dell'editore:

      << Risale a Cartesio quella separazione drastica fra emozione e intelletto che per secoli è stata un criterio ispiratore della ricerca, nonché un principio speculativo da non violare.
      Ma la realtà si sta rivelando diversa. In particolare, le affascinanti indagini sul cervello attualmente in corso muovono in tutt’altra direzione.
      Damasio è stato forse il primo a porre sotto attento esame le infauste conseguenze della separazione di Cartesio, e oggi è possibile circoscrivere quell’errore sulla base non soltanto di argomentazioni speculative, ma anche dell’analisi di casi clinici – (...) – e della valutazione di fatti neurologici sperimentali.
      Tutte le linee sembrano convergere verso uno stesso risultato: l’essenzialità del valore cognitivo del sentimento. >>

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