venerdì 2 ottobre 2015

I dieci Vizi Capitali - 1

Ma i “vizi capitali” dell’uomo non erano sette (superbia, avarizia, lussuria, ecc.) ? Certo, ma i vizi DEL CAPITALE sono di più, almeno dieci.
Questo, almeno, secondo Antonio Turiel che, nel lungo post che segue (tratto da Effetto Risorse), prova ad elencare quelli che, a suo avviso, sono i difetti principali dell’ideologia capitalista e neo-liberista.
La quale comunque, nonostante tutti i suoi vizi e le sue contraddizioni, continua imperterrita a dominare (e, per tanti versi, a beneficiare) il mondo occidentale. Almeno sino ad ora.
LUMEN



<< 1 – Individualismo

Uno dei valori più fondamentali per il corretto funzionamento della nostra società attuale è l'individualismo. L'individualismo consiste nel fatto che ogni individuo cerca di ottenere i propri obbiettivi per sé stesso senza affidarsi agli altri, sì, ma è molto più di questo: è l'obbligo di ottenere quello che ci si propone, senza l'aiuto di nessuno.

L'individualismo è fondamentale per il sistema economico perché l'individuo è più propenso a comprare beni per conseguire i propri fini, visto che cooperare con altri individui potrebbe richiedere di prendere in prestito ciò di cui ha bisogno o farlo congiuntamente, evitando la spesa e quindi il guadagno della fabbrica che produce ciò che gli serve. (…).

Il lato oscuro dell'individualismo è la competizione con tutti gli altri. La cosa importante, nel fatto che le persone contino solo sulle proprie forze (o su quelle che possono comprare) per coprire le proprie necessità, è di non ricorrere agli altri, ed il modo migliore di tagliare la strada della cooperazione è la competizione.

Esaltare la competizione nella cultura popolare è più difficile, poiché competere coi nostri simili, per esempio, per una pagnotta di pane ha, logicamente, un pessimo ascendente (poiché l'essere umano è, contrariamente a quanto a volte si dice, un animale eminentemente sociale). Il veicolo giusto per l'esaltazione della competitività è lo sport. Si parla di “sono spirito competitivo” e si da un'importanza smisurata allo sport (…) come veicolo culturale centrale.

Una volta insegnato che avere un contesto nel quale competere è una cosa giusta, risulta più facile estendere questo argomento di competitività ad altri contesti nei quali non risulterebbe tanto ovvio. Per esempio, nelle imprese: oggigiorno danno tutti danno per scontato che le imprese “debbano essere competitive”, il che in fondo significa che competano per una nicchia nel mercato a spese di altre imprese alle quali andrà peggio e che alla fine chiuderanno.

Questo è normale, ci dicono gli economisti, visto che la competitività permette di migliorare l'offerta ai consumatori e in questo modo questi usufruiscono di prodotti migliori, prodotti che, in realtà, servono ad esasperare il loro individualismo, comprando ciò che – in effetti - non servirebbe se chiedessero aiuto.

E qui sopraggiunge un'altra delle caratteristiche culturalmente indesiderabili dell'individualismo, ma che è a sua volta necessaria, e tanto, perché il nostro sistema economico vada liscio come l'olio: l'isolamento. Un individuo isolato si sente vuoto, incompleto, si rende conto che manca qualcosa. Non c'è niente di peggio e di più doloroso della solitudine per un animale sociale come l'uomo.

Per questo l'individuo isolato, scollegato da tutto ciò che in realtà ha senso per lei/lui, anche se lei/lui non lo sa, cerca di supplire a queste carenze comprando cose coi cui riempirle. L'esasperazione di vita che genera la solitudine porta ad avere individui che consumano in modo compulsivo. Persino in molte relazioni di coppia è facile osservare che si comportano molto più spesso come singoli individui che come coppia (per esempio, se le loro attività preferite escludono l'altra/o, come darsi al calcio o andare a comprare scarpe, mentre aumentano i consumi).

Per aumentare la solitudine e il consumo compulsivo, è importante incentivare la sfiducia negli altri, compresa la paura dell'altro, che porti a chiudersi, con la propria casa sempre più piena di cose è più vuota di vita. (…)

2 - Rottura del contratto intergenerazionale

I valori tradizionali che hanno sostenuto tutte le società umane di cui siamo a conoscenza si sono basati su un principio molto semplice: i padri dettavano sempre ciò che era meglio per i propri figli. In un certo senso, la vita dei padri è soggetta al benessere futuro dei suoi figli e i padri accettavano in modo naturale qualsiasi sacrificio e privazione se con questo i loro figlio avrebbero potuto stare in una posizione migliore.

Logicamente, questi padri educavano i propri figli agli stessi principi, per cui si sperava che nel momento in cui arrivavano alla loro età da matrimonio, i figli, ora padri, si comportassero nello stesso modo. Questo valore culturale, praticamente costante in tutte le società umane, ha un valore ecologico molto importante e in fondo imprime ad ogni generazione dominante una norma di auto-limitazione.

E' sempre stato visto di cattivo occhio, per esempio, che un padre incosciente dilapidasse il patrimonio famigliare, o che sfruttasse i terreni che erano stati della famiglia per generazioni in modo tale che rimanessero poveri e incolti. Ad ogni generazione venivano assegnate le risorse come se questa fosse semplicemente il prestanome di quella successiva, in questo modo si evitava un ritmo di consumo eccessivo che portasse all'insostenibilità: ricordiamo che la definizione più semplice e comune di sostenibilità è “gestire le risorse e produrre residui oggi in modo che i nostri figli possano fare la stessa cosa domani”.

Questo modo di intendere la gestione delle risorse, questa fiducia che passa di padre in figlio, è un contratto intergenerazionale implicito molto forte o più di un contratto legale mercantile. Tuttavia, con l'irruzione del capitalismo finanziario questo contratto è saltato in aria. Visto che una delle caratteristiche del capitalismo è la necessità della crescita esponenziale, è importante rimuovere tutti gli ostacoli al consumo che evitino che si cresca al tasso esponenziale desiderato, finché è possibile, e il contratto intergenerazionale è un freno molto forte.

Pertanto, è fondamentale che ogni generazione pensi a breve termine e solo a soddisfare i propri desideri ed è importante che non si senta in colpa per questo. Come sublimazione dell'individualismo spiegato nel punto precedente, il padri competono coi propri figli e sperano che la loro discendenza sia in grado di risolvere i loro problemi da soli, anche se questi hanno dimensioni ciclopiche proprio per mancanza di freno avuta dai padri.

Espressioni come “tanto io questo non lo vedrò” e persino “bah, saranno i miei figli o i miei nipoti che se ne dovranno occupare”, abituali quando si comincia a discutere di questioni ambientali o collegate alla scarsità di risorse, mostrano un atteggiamento che dal punto di vista della mentalità di solo un secolo fa sarebbe socialmente riprovevole. (…)

3 - Perdita della percezione di un bene comune e trascendente

Molte società precedenti alla nostra sentivano di avere un fine specifico, collettivo e personale, anche se molto diverso di cultura in cultura. Poteva essere la custodia di una reliquia venerata da molte società prossime (La Mecca) o la responsabilità di dovere avere cura dal corso di un fiume (Alto Nilo) o di fare da muro di contenzione contro un nemico esterno umano (Polonia) o naturale (Paesi Bassi).

A volte questo obbiettivo trascendente era piuttosto assurdo, tuttavia otteneva sempre che i membri di quella società tenessero ben presente l'obbiettivo comune e che fossero disposti a collaborare nei momenti di crisi, durante i quali l'oggetto della sua aspirazione collettiva fosse particolarmente in pericolo. A volte questo bene comune era semplicemente una scusa per mantenere unita la comunità in un obbiettivo comune, a volte la sua finalità era molto più profonda.

In ogni caso, fissando un obbiettivo comune gli individui imparavano a collaborare e a cedere una parte del proprio tempo di lavoro a favore della comunità (per esempio, nello sfruttamento di terreni comuni o nella costruzione e manutenzione delle muraglie). L'esistenza di un bene comune serviva anche per razionalizzare l'altruismo, per questo non è raro trovare molti esempi nei quali si stabilisce il come, il quando e il cosa dare agli altri.

Molte società hanno funzionato in questo modo per secoli, con un'evoluzione a volte curiosa degli obbiettivi considerati comuni, a volte con cambiamenti radicali. Il vantaggio di avere un bene comune identificabile è che le società pianificano il loro futuro, imponendo norme severe sulla gestione dei loro prodotti, a volte in modo molto efficiente. E l'esistenza di questo bene comune e trascendente fa sì che tutti i loro membri accettino le assegnazioni che vengono fatte.

Ma col trionfo dell'individualismo, ogni senso di bene comune si perde: la società non è più una rete di mutue cooperazioni ma un insieme di individui che cercano di massimizzare la soddisfazione delle proprie necessità, anche se fosse a discapito degli altri. Qualsiasi concetto di organizzazione comune scompare, ed è importante che scompaia, perché l'homo individualis consumi sempre di più, in modo che la produzione possa continuare ad aumentare esponenzialmente. (…)

4 - Alienazione della propria responsabilità nella gestione pubblica

C'è la percezione che, nella nostra società attuale, ci sia una maggiore consapevolezza dei rischi, soprattutto per la vita, di quella che c'era per esempio un secolo fa: le misure di sicurezza sul lavoro sono incomparabilmente maggiori e molto più dettagliate, si prevedono necessità nel caso di eventi speciali e molteplici, si pianificano misure per evitare situazioni avverse, ecc.

Tuttavia, nella misura in cui è aumentato il dispiegamento tecnologico, si è andata riducendo la percezione personale del rischio, fino praticamente a cancellare la responsabilità personale nella gestione del rischio personale o altrui.

Oltre alla tecnologia, con la centralizzazione delle decisioni negli Stati, allontanando il centro decisionale dal luogo in cui si applicano quelle decisioni, i cittadini perdono la consapevolezza del fatto di avere qualcosa da dire sulla gestione delle cose che li toccano da vicino, fino al punto estremo di pensare che non si può fare niente per cambiare le cose.

Non saliremmo mai in un autobus in cui il conduttore fosse del tutto ubriaco, (…) tuttavia continuiamo a delegare le decisioni fondamentali sulla nostra quotidianità a persone che non conosciamo, che vivono a centinaia di chilometri di distanza da noi e che prendono ripetutamente decisioni dannose per i nostri interessi e a favore dei grandi interessi economici (…)

Anche in questo momento in cui monta una marea critica, in molti paesi, nei confronti del modo di procedere dei nostri responsabili politici, che sembra corrotto, le alternative che si configurano aspirano alla stessa struttura di potere centrale, il centro decisionale e gestionale lontano, prevedibilmente con gli stessi problemi e risultati di quelli che ci sono ora.

Le conseguenze disastrose di questo sistema di gestione così impersonale, così alienato, non si limitano alla disattenzione verso le questioni sociali, ma finiscono per mettere in pericolo la nostra stessa sopravvivenza: non può essere che consideriamo le attuali esternalità ambientali associate alla “normale attività economica” come giuste, se questo porta a mettere a grave rischio la nostra stessa continuità sul pianeta. >>

ANTONIO TURIEL

(continua)

8 commenti:

  1. Ho letto questo lungo e farraginoso testo con un certo fastidio. Sì, nel complesso le idee di Turiel mi sembrano giuste, ma anche un po' scontate.
    La competitività e l'individualismo senza freni non possono che distruggere la coesione sociale, il senso di appartenenza a un'entità maggiore del nostro "particulare" e da cui in buona parte dipendiamo.
    Nelle società antiche la vita scorreva per la maggior parte della popolazione sempre uguale a se stessa, con pochissime varianti visti gli scarsi mezzi. La competitività è esistita eccome in tutti i tempi, ma riservata a una élite. La plebe di Roma doveva accontentarsi di pane e giochi, le élite vivevano in un altro pianeta accumulando ingenti ricchezze.

    La novità degli ultimi secoli è stato lo sviluppo capitalistico favorito dalle fonti di energia a basso prezzo. Oggi anche persone di modesta condizione (almeno da noi in occidente) possono contare su beni ed agi ignoti ai prìncipi medievali (per dire: nessuno muore più di freddo da noi grazie al riscaldamento centrale - i barboni che muoiono assiderati sono un fenomeno di dimensioni irrilevanti).
    Certamente competitività e individualismo hanno subito, specie nel secondo dopoguerra, un'accelerazione straordinaria, e causa di molti guai.
    Ma quale sarebbe l'alternativa? Meno competitività, meno individualismo, maggiore attenzione al bene comune? Massì, perché no? Per vendere di più il capitalismo deve promuovere l'individualismo, ma ad un certo punto scopriamo che questo individualismo è non solo sterile e insoddisfacente (e per frustrazione compri di nuovo un'altra cosa inutile o di dubbia utilità, ma che ti dà l'illusione di essere forte, potente - puoi comprare ciò che ti piace), ma costa anche troppo (quando compri provi due sensazioni: sei potente, puoi comprare, ma il tuo conto si contrae, in futuro potresti non potere più comprare, dovere rinunciare = impotenza).

    (continua)

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  2. (continuazione)

    Io credo (ma non dico nemmeno: spero) che in futuro saranno necessari più cooperazione e meno individualismo esasperato. Saranno anche i numeri (demografici) a imporre cambiamenti che forse in questo momento ad alcuni vanno di traverso. Si parla ormai apertamente (in Germania, ma anche in Italia) di parziale espropriazione delle seconde case per dare alloggio ai ... senzatetto, i cosiddetti rifugiati, o finti profughi, migranti, invasori, clandestini. Guidano questa battaglia la signora Merkel e il papa.
    Ma alla Merkel cominciano a fischiare le orecchie ...
    Siamo ancora una nazione, un popolo, una comunità che riconosce certi valori - o una manica di individualisti concentrati unicamente sul proprio interesse?
    Come si fa ad essere contro il bene comune? Nessuno di noi può sopravvivere da solo (come te la procuri l'energia, chi costruisce l'infrastruttura ecc. ). Bisognerà però ridefinire questo bene comune al cui mantenimento siamo tutti chiamati (e interessati!). I comunitaristi o comunisti alla papa Francesco vorrebbero espropriarci di quasi tutto da distribuire ai poveri, alle masse diseredate. Oggi lavoriamo un po' tutti in occidenti fino a circa fine giugno per lo Stato, ovvero per il bene comune.
    Non basta, dicono papa Francesco e tanti cosiddetti progressisti. Bisogna contribuire al bene comune lavorando per lo Stato fino - diciamo - a metà dicembre, il resto mancia.
    Be', sarò un bieco individualista, ma io non ci sto. Del resto i comunitaristi e i comunisti sanno benissimo che espropriare fino all'osso i contribuenti è molto controproducente perché nessuno più lavorerà o darà il massimo (tanto poi arriva il Bene comune e ti frega). È interessante osservare che la Chiesa (per es. Casaroli) considerasse il comunismo (di marca sovietica, ma non solo) come "utopico" (appunto perché disincentiva l'impegno).
    In altre parole (ma sono poi le vecchie): quanto bene comune è tollerabile senza far passare la voglia al singolo di parteciparvi, di fare la sua parte?
    Quanto individualismo si può considerare sano, naturale, ragionevole e utile alla società? Il potere vuole il più possibile (vedi tentativi di fregare il contribuente abolendo il contante per espropriarlo più facilmente, clic clic clic), l'individuo desidera conservare una certa autonomia, almeno un minimo o l'illusione di libertà).
    Non si finirà mai di discutere, credo, su queste cose. Il tira e molla continuerà all'infinito. A meno che i numeri (demografici) risolvano il problema (a un certo punto si dovrà dare a tutti una pagnotta e qualche decilitro di acqua al giorno). Brave new world!

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  3. << quanto bene comune è tollerabile senza far passare la voglia al singolo di parteciparvi, di fare la sua parte?
    Quanto individualismo si può considerare sano, naturale, ragionevole e utile alla società? >>

    Sono domande fondamentali le tue, caro Sergio, ma che - per l'appunto - hanno una risposta difficilissima.
    D'altra parte se un equilibrio veramente stabile e efficiente fosse già stato trovato da qualche parte nel mondo, credo che tutti si sarebbero affrettati a copiarlo e metterlo in pratica.
    In fondo le notevoli differenze tra una civiltà e l'altra consistono proprio nel modo - diverso per ciascuna - in cui hanno provato a rispondere alle tue domande.

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  4. A propostio di vizi e derive del turbo-capitalismo, mi sembra sintomatico quanto avvenuto l'alltro giorno a Roissy (Francia), con i dipendenti inferociti di Air France che inseguivano i manager della compagnia, animati da pessime intenzioni.

    Per Alessando Gilioli << è un rapporto tra sociale e politico simile a quello dei primordi dell'età industriale: quando ancora non esisteva un sindacato organizzato né c'erano i partiti socialisti o comunisti, quindi gli operai - quando la misura era colma - se la prendevano direttamente, fisicamente e violentemente con il padrone o i suoi immediati sottoposti.
    Ma il ritorno all'Ottocento è segnalato anche dagli effetti del gesto liberatorio: una volta denudato il capo delle risorse umane, infatti, non rimane nient'altro che la soddisfazione di aver umiliato un potente. Fine. E se questo è il massimo del risultato che una protesta riesce a ottenere, siamo appunto tornati indietro di parecchi decenni. >>

    Non ha tutti i torti.

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    1. La famosa autogestione operaia si è rivelata un fallimento. Se io sono proprietario di una ditta - e se ci metto i miei soldi per crearla e gestirla - è chiaramente mia, anche se assumo dei collaboratori, e quindi posso anche chiuderla o venderla. Inutile che i collaboratori s'incazzino e mi sputino in faccia. Erano contenti di essere assunti, di aver trovato un lavoro, ma nessun imprenditore può e vuole assumersi il rischio di doverseli tenere fino alla pensione (oltretutto non è possibile perché la sopravvivenza della ditta dipende anche dal mercato, dagli sviluppi tecnologici ecc.). La sua funzione sociale i'imprenditore l'ha già assolta nel creare un'impresa, nell'offrire impieghi e nel remunerarli anche bene. E anche se chiude a suo capriccio non si può impedirglielo. A meno che non aboliamo la libera impresa e demandiamo allo stato la creazione di posti di lavoro. Sarà allora lo Stato a creare lavoro, assumere (a vita) e gestire le imprese (buona notte!).

      Tuttavia non escluderei che lo Stato sia un giorno (non troppo lontanto) ridotto a fare l'imprenditore (fallimentare) per tenere buone le masse. Nella Roma anrtica bastavano distribuzioni di grano e giochi, oggi le cose si sono molto complicate perché con l'invenzione dello stato sociale e assistenziale (altrimenti detto uelfer perché è più chic) le aspettative e le pretese sono esplose e non ci accontenta più delle vittorie della nazionale di calcio.

      Non so proprio come andrà a finire. Siccome sto leggendo Il mondo nuovo di Huxley credo che ci vorrà - come diceva lui - una superorganizzazione per prevenire il peggio. E la superorganizzazione significa dittatura più o meno larvata. Del resto già ci siamo grazie alla tecnologia. La privacy, per legge garantita, non esiste più: lo Stato sa tutto di noi.

      P.S. Il diritto internazionale cogente vieta la schiavitù e la tortura.
      Per i sindacati e la sinistra l'imprenditore è uno schiavista perché sfrutta la manodopera e si arricchisce a sue spese. Vero. Quindi aboliamo la libera impresa e torniamo al comunismo (eh eh!). Buona fortuna.

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    2. << Tuttavia non escluderei che lo Stato sia un giorno (non troppo lontanto) ridotto a fare l'imprenditore (fallimentare) per tenere buone le masse. >>

      Caro Sergio, l'Unione Sovietica (di mai rimpianta memoria) faceva appunto così. E poi ha fatto la fine che sappiamo, principalmente per bancarotta economica.

      Quanto all'ipotesi del super-governo mondiale, presumibilmente dittatoriale, non la vedo come un'eventuialità molto probabile.
      Forse perchè ritengo che la globalizzazione sia destinata, prima o poi, ad arretrare.
      E' noto infatti che il costo energetico dei collegamenti mondiali (parlo di quelli fisici, ovviamente) è stratosferico e non so per quanto tempo ancora possiamo permettercelo.

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  5. Ho molto apprezzato la parte sulla rottura del contratto fra generazioni, è fantastico pensare al padre di famiglia che da una parte rovina il futuro del figlio e dall'altra sogna per lui un futuro migliore. E poi, sentendosi preso da coda di paglia, dice sempre più o meno quello che riporta Turiel.

    Allo stesso modo mi sembra orientato anche il rapporto con l'imprenditore.
    Le masse operaie si sono troppo imborghesite, non accetterebbero mai più la fine della libera impresa, vogliono essere tutti quanti signori e proprietari. Però neanche che l'imprenditore faccia come vuole lui con quello che è suo; come sopra insomma, si vuole tutto tranne affrontare le conseguenze sgradevoli delle proprie azioni.

    Io non ho mai visto queste masse del ricco occidente protestare contro la crescita demografica del terzo mondo, non le vedo protestare adesso contro l'invasione dei clandestini; mai protestano quando i loro governi regalano soldi allo stesso terzo mondo. Protestano sempre alla fine, quando devono pagare per lo sviluppo altrui.
    Anche secondo me ci sarà più cooperazione in futuro, ma solo entro piccoli gruppi. Dare pane e acqua a 10 mld e più di persone, caro Sergio, non credo avverrà mai.

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    1. << Io non ho mai visto queste masse del ricco occidente protestare contro la crescita demografica del terzo mondo, non le vedo protestare adesso contro l'invasione dei clandestini; mai protestano quando i loro governi regalano soldi allo stesso terzo mondo. Protestano sempre alla fine. >>

      Caro Francesco,
      la gente ha la vista corta, notoriamente. E reagisce solo quando viene toccata materialmente (cioè, in genere, quando è tardi).

      A volte si mobilita per qualche rischio (perchè viene meglio percepito), ma l'attenzione è breve ed appena possibile torna a curare il proprio "particulare".
      Illudendosi magari che siano gli amministratori della cosa pubblica a prendere le decisioni importanti e di lungo respiro.
      Ma senza disturbare troppo, eh...

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