sabato 30 maggio 2015

Morte bella parea

Diceva Epicuro che: “La morte non è nulla per noi, perché quando ci siamo noi, non c’è la morte, e quando c’è la morte, noi non ci siamo piú”.
“Et de hoc, satis” aggiungerei io. Invece il pensiero della morte, con tutti i suoi annessi e connessi, domina da sempre ogni cultura umana, arrivando, in molti casi, ad essere uno dei suoi tratti distintivi.
E proprio sulle profonde differenze che si sono sviluppate su questo argomento tra la cultura occidentale e quella islamica è incentrato questo breve articolo di Aldo Giannuli (tratto dal suo sito), che ho trovato molto interessante. 
LUMEN



<< Lo scontro in atto fra Occidente e Jihadisti, come spesso si dice, è di tipo asimmetrico, perché è combattuto fra Stati e formazioni clandestine, fra eserciti pensati per la guerra regolare e soggetti che conducono una guerra irregolare.

Questo è noto; quello che invece, quasi sempre, sfugge è la principale asimmetria dello scontro che, prima ancora che militare o politica, è di carattere psicologico, e dalla quale discende tutto il resto. Ed è il diverso atteggiamento di fronte alla morte dei due schieramenti combattenti.

Una delle chiavi interpretative della modernità può essere il suo rapporto con la morte. A lungo l’Europa ha condiviso con tutti gli altri modelli di civiltà il carattere prevalentemente religioso e, come tale, ha risolto il suo rapporto con la morte dentro un rapporto di fede, che assicurava un “oltre” dopo la morte; quel che, in qualche modo, conciliava l’uomo con l’idea della sua fine personale.

Man mano che si è proceduto sul sentiero della secolarizzazione, questa conciliazione è andata via via evaporando ed oggi, giunti all’età dell’ateismo e dell’agnosticismo di massa, è praticamente svanita. Oggi anche una parte dei credenti (peraltro minoranza, nella società europea) non è più tanto sicura della vita ultraterrena.

Finita anche la breve stagione romantica della “morte eroica” (per la patria o per la classe, poco importa) ed approdati all’epoca dell’iper-individualismo, l’uomo europeo (ma diciamo meglio: occidentale) si scopre solo e del tutto impotente davanti alla morte. La modernità si è costruita intorno all’idea di un dominio totale dell’uomo sulla natura e, con esso, il sogno inconfessato della vittoria sulla morte, supremo punto di arrivo di quel dominio.

Tutto l’Ottocento ha esorcizzato la morte, con strategie che decostruivano l’idea stessa della mortalità, attraverso la promessa di progressi scientifici che annullassero, se non il fenomeno stesso della mortalità, ogni singola ragione specifica di morte degradata da “destino dell’uomo” a incidente. Si muore per una malattia, per un sinistro o perché uccisi, dunque per una qualche causa efficiente accidentale. Dunque, occorre cercare di neutralizzare ogni singola causa e la scienza prometteva di farlo.

Ma con il sopraggiungere del disincanto della modernità, segnato dal “nuovo senso di disperazione”, l’uomo “moderno” ha scoperto sempre più limiti al suo sogno di onnipotenza. Il progresso non è più infinito e senza effetti imprevisti e non auspicabili.

Freud dice che ciascuno, nel suo subconscio, si ritiene immortale e l’angoscia di morte è solo il senso di colpa per un desiderio rimosso. In qualche modo, l’illusione della vita ultraterrena, coltivata dalla fede prima, e con la fede nell’onnipotenza della scienza, rendeva in qualche modo plausibile quella convinzione profonda. Ma essa ha iniziato a vacillare con la crisi della modernità, e, nel subconscio ha iniziato a manifestarsi il molesto senso di una fine individuale, senza riparo e senza speranza.

Incapace di elaborare il lutto del senso di immortalità personale, l’uomo occidentale ha decostruito l’idea della morte, lasciandola “disadorna, nuda, priva di significato. La morte non è che uno scarto di produzione della vita; un residuo inutile, lo straniero totale nel mondo semioticamente ricco, affaccendato e fiducioso abitato da abili e ingegnosi attori”. Qualcosa di indicibile, da rimuovere e nascondere.

Esaurita la strategia della modernità, affidata all’onnipotenza della scienza (anche se qualche equipe medica continua a coltivarlo dedicandosi, in tutta serietà, al delirante “progetto immortalità”) è subentrata una nuova strategia di aggiramento: la decostruzione dell’immortalità, affidata alla negazione del tempo, alla riduzione della vita ad un eterno presente, che abolisce ogni futuro e, con esso, la prospettiva di un mondo senza di noi individualmente presi.

Si vive in un presente eternizzato, che teme il confronto con la storia, che abolisce ogni previsione di lungo periodo, che rimuove il passato. E’ intollerabile l’idea del tempo in cui non ci saremo come quello del tempo in cui non eravamo. La morte è “horror vacui” e l’uomo occidentale è sempre più cenofobico, detesta l’assenza di suoni, di attività, la meditazione, la solitudine, il silenzio, ha bisogno di “fare”.

Negli ultimi venti anni le foto da satellite dimostrano l’aumento esponenziale, in tutto il pianeta, delle lucanie in orari notturni. Nello stesso tempo è in vertiginoso aumento anche il rumore: non c’è attimo della giornata in cui non siamo raggiunti da un rumore di fondo crescente. Silenzio e buio – qualità proprie della notte - sono troppo simili al “vuoto” del “dopo esistenza”, per poter essere sopportati ed anche la notte è bandita.

Ma il resto del mondo, e quello islamico in particolare, è restato estraneo a questo percorso psicologico, non ha rimosso il suo credo religioso, che resta largamente presente e creduto non tiepidamente.

Nella complessa rivolta contro la modernità segnata dal fondamentalismo, il richiamo alla fede fonda quel senso di superiorità dell’Islam rispetto alla “decadente” civiltà occidentale, che caratterizza proprio la rivalsa jihadista, documentata dallo sprezzo della vita dei suoi combattenti e dalla loro ricerca del martirio.

E qui si annida il punto critico della resistenza psicologica dell’uomo occidentale rispetto all’offensiva islamista. Gli jihadisti terrorizzano l’uomo europeo secolarizzato sia per il carattere volutamente cruento delle proprie azioni, che gli “sbattono la morte in faccia” sia, e molto di più, con la loro disponibilità al martirio, che li rende esseri “mostruosi” agli occhi della nostra società iper-individualista.

Che deterrenza puoi avere nei confronti di qualcuno che non teme la morte e che esibisce questa sua fede cieca? Di qui l’idea dell’impossibilità di un confronto politico – anche il più aspro - e la riduzione del tutto a scontro militare che deve estirpare questa presenza demoniaca. E di qui anche il tipo di comunicazione adottato dagli jihadisti che sottolineano a più non posso la morte inflitta e cercata.

Di fatto, questo fenomeno è alla base dell’ideologia sicuritaria che si è diffusa nelle nostre società rendendole fragilissime. Ed allora, chiediamoci con Marc Augè: “Non sarà che, oggi, la paura della vita abbia rimpiazzato la paura della morte ?” >>

ALDO GIANNULI

43 commenti:

  1. Paura della vita? Che significa? Le magnifiche sorti e progressive non appaiono più tali a noi occidentali, non sappiamo più bene cosa ci aspetti, se potremo mantenere il nostro standard di vita relativamente privilegiato rispetto al resto del pianeta (vorrei sottolinare quel "relativamente" perché in Italia - pur sempre tra i paesi più industrializzati del mondo - si contano a milioni quelli che non arrivano alla fine del mese). La crisi è superata o no? La crescita riprenderà o no? Ma poi questa crescita e il relativo benessere - per carità, nient'affatto da disprezzare, anzi - potranno mai soddisfarci, renderci felici? Il piacere e la ricerca del piacere, del benessere, sono per noi legittimi (ma non per l'etica cristiana), desiderabili, ma ... è tutto? Senza tensione, senza un progetto, manca qualcosa. Ma che possiamo desiderare, a cosa possiamo tendere noi occidentali ben pasciuti? Battersi per una maggiore uguaglianza, per più giustizia, per il reddito di base garantito ecc. non mi sembrano progetti esaltanti, piuttosto ordinaria amministrazione (questa frase suonerà oscena ha chi ha ancora poco o niente). Una volta si moriva per un'idea (si ammazzava pure per un'idea, come fanno ancora oggi i fondamentalisti religiosi). Abbiamo sostituito l'eternità con il benessere. È stato un buon cambio? Sì e no. Senza una qualche tensione "la noia ci assale", si lamenta Leopardi (mentre il gregge "riposa" - in realtà il fenomeno della noia e il relativo malessere si osservano anche fra gli animali, e non solo fra quelli più evoluti).
    In occidente abbiamo esorcizzato la morte - o forse crediamo di averla esorcizzata (cioè vinta). Io non ho mai visto - a settant'anni suonati - un morto! La morte è una cosa brutta da nascondere, siamo organizzatissimi per nasconderla: potrebbe intralciare la produzione e il consumo (chi medita troppo non produce abbastanza).
    I giovani si credono immortali: la morte non li riguarda. È bene, è giusto che sia così (com'erano in fondo perverse le meditazioni sulla morte che noi ragazzi leggevamo nel "Giovane provveduto", il libro di preghiere di Don Bosco). La vita giovane è desiderio, speranza, tensione, salute, bellezza. E l'imbattersi nella morte da giovane è un trauma che si supera in genere facilmente.
    E tuttavia ... Come accettare questo fatto che siamo in fondo effimeri come i moscerini (viviamo solo un po' più a lungo)? Eppure personaggi come Domenico Savio o Margherita Hack non temevano la morte. Finché si è attivi, operosi, e anche in discreta salute, alla morte semplicemente non si pensa, quindi non esiste o è solo un'ombra non troppo molesta.

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  2. << Una volta si moriva per un'idea (si ammazzava pure per un'idea, come fanno ancora oggi i fondamentalisti religiosi). (...) Senza una qualche tensione "la noia ci assale" >>

    E' vero, caro Sergio, ma non credo che valga la pena di rimpiangere quei tempi.
    Soprattutto per un "fenotipo consapevole" che conosce bene l'unicità di questa vita, dopo la quale nulla ci attende, e quindi il suo valore inestimabile, di cui avere gran cura.
    E per "sconfiggere la noia" ci sono mille modi intelligenti, basta cercarli: non credo che sia necessario morire per qualcosa.

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    1. "E per "sconfiggere la noia" ci sono mille modi intelligenti, basta cercarli: non credo che sia necessario morire per qualcosa.

      È ovvio. Però per il nostro Leopardi la noia era qualcosa di connaturato all'uomo, non eliminabile. Mi chiedo cosa direbbe o farebbe oggi Leopardi, con tutte le possibilità di svago che abbiamo. Forse non scriverebbe più la "Palinodia" (che a me piace moltissimo).

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    2. << Mi chiedo cosa direbbe o farebbe oggi Leopardi, con tutte le possibilità di svago che abbiamo. Forse non scriverebbe più la "Palinodia" >>

      E magari anche tutto il resto.
      Chissà, forse è stato proprio il suo disagio esistenziale che ci ha dato i capolavori che tanto amiamo.
      Ma forse si tratta di un problema più soggettivo che oggettivo, legato al carattere ed alla personalità di ognuno.

      Io, nel mio piccolo, non ricordo di essermi mai annoiato in vita mia (salvo situazioni particolari), anche se quando ero ragazzo non c'erano tutte le cose tecnologiche di oggi.
      Ma se dovessi dare dei consigli a qualcun altro, non saprei da che parte incominciare.

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    3. "Io, nel mio piccolo, non ricordo di essermi mai annoiato in vita mia."

      Che contraddizione! Uno che non si è mai annoiato apprezza Leopardi per il quale la noia è un sentimento sublime (si contraddice pure Leopardi perché per quanto sublime e riservato all'uomo questo sentimento crea sommo malessere, è insopportabile, e tutto si fa per fuggiere la noia).
      Ma perché non sopportiamo la noia? Chi si annoia è inattivo, non sa che fare, è bloccato: una situazione non naturale che deve mettere a disagio (l'energia non trova sfogo). Si potrebbe dire: l'annoiato non vive, è devitalizzato in quel momento. La vita invece è movimento, sforzo, ricerca, tensione e distensione, soddisfazione di avercela fatta (a trovare il cibo o l'equazione E=mc2).
      "Nel mezzo del cammin ..." Parsifal non sa che fare e questa incertezza lo tormenta. Ovvio, non vive, non ha un progetto, non è teso verso qualcosa. Vorrebbe (vivere) e non può perché non sa cosa fare, non sa decidersi e agire.

      P.S. Mi scuso per le banalità espresse. Quanto sono piatto e banale, lapalissiano. Ma non possono essere tutti genii. Come sarebbe un mondo di soli genii? Una crescita vertiginosa di saperi, una rivoluzione continua. Ma anche la rivoluzione stanca ed è nemica del ... quieto vivere. La vita è qualcosa di mezzo fra due morti: la stabilità assoluta e il caos. Una rivoluzione al giorno è troppo. Ma c'è chi dice che solo il momento creativo (a qualsiasi livello, anche in cucina) è vera vita: il resto è ripetizione, meccanicismo, routine, noia, dunque assenza di vera vita.

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    4. << La vita è qualcosa di mezzo fra due morti: la stabilità assoluta e il caos. >>

      Concetto bellissimo, questo.
      Altro che banalità: tu sei una miniera di acutezza e di senso pratico, due termini che non sono per nulla antitetici.

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  3. Sciocchezze pompose e autoreferenziali, fuori dalla realta', io conosco un sacco di lavoratori/contribuenti che riescono a sopravvivere solo perche' sanno che prima o poi questo calvario (la vita) finira'. E di fronte alla prospettiva che una vita dopo la morte possa essere simile a quella che stanno vivendo in questo Stato da "doppio legame", cosa che intuiscono ascoltando l'attuale classe sacerdotale cui Giannuli volente o nolente appartiene, preferiscono di gran lunga il nulla. Questo e' il problema annoso della nostra societa' italiana: che chi ha la "cultura" (metto fra virgolette perche' mi riesce difficile definire cosi' una tale inconsapevolezza) non sa e non capisce nulla del mondo che lo circonda e dei suoi sentimenti.
    Il fatto che l'autore definisca stucchevolmente, per esecrarlo, "iperindividualista" quel mondo che non capisce, contribuendo cosi' ulteriormente a deteriorarlo, aggrava la situazione. Altro che Islam...
    ;)

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    1. << Questo e' il problema annoso della nostra societa' italiana: che chi ha la "cultura" (...) non sa e non capisce nulla del mondo che lo circonda e dei suoi sentimenti. >>

      Caro Diaz, non nego che per molti intellettuali questo sia vero: in fondo loro fanno parte di una elite che, come tale, vive un'esistenza privilegiata ed ignora (nel senso che proprio non conosce) tutte le difficoltà di noi comuni mortali.
      Ma non mi sento di escludere che qualcuno, qua e là, si salvi, o per sensibilità o per onestà intellettuale o per semplice fortuna.

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  4. Che ci sia un'asimmetrico rapporto con la morte fra Occidente e Islam è di tutta evidenza, come anche che gli uomini che attendono la Morte lo fanno come il vecchio della favola di Esopo. Se La vedessero davvero davanti a loro, fuggirebbero. Al pensiero della Morte, al massimo, ci si rassegna, ma è proprio il massimo. Accettarla è tutt'altra cosa, è oltre il massimo, in Occidente è semplicemente impossibile. O sei un fanatico perché campi nel Medio Evo, come gli islamici, oppure sei Marco Aurelio, ma certo non è il caso degli omini dei nostri tempi. Per la massa vale solo il detto: altro parlar di morte, altro morire. Oppure l'epitaffio di Claudio Villa: vita sei bella, morte fai schifo. Meraviglia, epica pura! Omero e Ossian, niente al confronto, Achille e Digenis, personaggi da operetta. Altro che romanticismo della morte eroica, altro che "la morte sorride a tutti...". Mangiare, mettere su grasso, seminare figli di qua e di là, restare attaccati alla vita, e che altro?
    Dunque nessun deterrente contro l'Islam, per forza.
    Magnifico articolo di Giannuli, grazie Lumen.

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  5. << Altro che romanticismo della morte eroica >>

    Caro Francesco, in effetti il concetto, visto con gli occhi appena appena disincantati di un pensatore razionale, appare abbastanza infantile, quando non addirittura strumento di circonvenzione.
    Eppure ha segnato un'epoca della storia e della cultura occidentale.
    Nel mondo islamico mantiene ancora oggi il suo fascino, ma la cultura ormai cambia velocemente per tutti, e non scommetterei sul suo futuro (per fortuna...).

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    1. In occidente viviamo ormai da tempo in un'era post-eroica: già nella Grande Guerra Alberto Sordi (versione Comencini, ma credibile) l'eroe non lo voleva fare (e te credo!). Figuriamoci oggi che siamo tutti smartphone e consumi. Non è un caso che ormai non si elevino più monumenti a nessuno. Va bene così? Certo.
      Eppure quel tempo eroico, pieno di efferatezze e retorica ("dulce et decorum est pro patria mori") è stato il precursone dello smartphone.
      Tutti apprezziamo il progresso, le comodità, il quieto vivere, la pace. Però dieci miliardi di stronzi che si telefonano in continuazioen pur non avendo niente da dirsi e giocano - immemori del passato - non mi piacciono troppo. Oltretutto chi dimentica il passato è costretto (forse, probabilemente) a riviverlo (Santayana).
      Dunque? Niente, chiacchiere conviviali.

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    2. Cari Lumen e Sergio, scusate se rispondo solo adesso.
      A leggere le vostre considerazioni, non si desta nessun istinto di contraddizione, auguriamo al resto dell'umanità lo stesso bene che desideriamo per noi. E allora niente guerre, senz'altro, e anche comodità in santa pace, va certamente bene così.

      Però, valutando la questione in termini più oggettivi, io riconsidererei tutto quanto. Se no finiamo per fare come faceva Cecchi Pavone quando celebrava le magnifiche sorti e progressive dell'umanità, senza vedere -uno che si picca di capir di scienza- che questi aspetti paradisiaci sono anche quelli infernali. La mortalità al mondo è oggi tanto bassa, si consuma tanto e si può vivere tanto bene, ma questi stessi fatti presentano un enorme rovescio della medaglia, nelle ricadute socioeconomiche e soprattutto ecologiche.

      E' come quando si parla di "viaggi della speranza": come se la realizzazione di queste infinite speranze fosse aggratis, come se non facesse danni all'altrui qualità della vita e alla qualità dell'ambiente di tutti.

      Vi sembrerò retorico, o patetico, ma il ritorno al tempo degli eroi è più che mai necessario. Impossibile, certo, ma necessario. E il dramma in fondo è questo, che ciò che serve non si può ottenere. E allora l'eroismo non è fare piazza pulita dai pirati come ai tempi di Pompeo, no, è rimorchiare bagnarole e agevolare lo sbarco delle sanguisughe pronte a campare a spese pubbliche.
      E a sentire Mattarella stamane, sulla Fao, ho dovuro cambiare canale, non l'ho retto.

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    3. Ormai è tutto un coro: il papa, Scola, i preti, Mattarella, Juncker, oggi persino gli Scozzesi: è nostro dovere accogliere migranti, profughi, rifugiati, non possiamo respingere nessuno. E dobbiamo pure vergognarci delle tragedie che avvengono nel Mediterraneo! Si resta senza parole davanti a tanta retorica e disprezzo per i poveri autoctoni che devono subire per non sentirsi dare del razzista o essere considerati degli abbietti egoisti. Provate a chiedere a tutti questi sedicenti idealisti: ma quanti milioni all'incirca possiamo accoglierne? Garantito che diranno: come si può parlare di numeri davanti a queste tragedie?
      A questo punto uno si chiede davvero se non ci sia del metodo in tanta follia e se Bat Ye'or non abbia qualche ragione:

      "Gli architetti (europei) del progetto Eurabia"

      http://www.ilgiornale.it/news/cultura/architetti-europei-progetto-eurabia-1136525.html

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    4. << A questo punto uno si chiede davvero se non ci sia del metodo in tanta follia >>

      Spero proprio di no, accidenti.
      Basta già (e avanza) la semplice stupidità umana dei buonisti, aggravata dall'avidità miope dei trafficoni.
      Spero che la baracca (italiana) riesca a resistere ancora per un po'; ma non ne sono così sicuro.

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  6. << Eppure quel tempo eroico, pieno di efferatezze e retorica ("dulce et decorum est pro patria mori") è stato il precursone dello smartphone. >>

    Giusto.
    Resta però da chiedersi che tipo di rapporto ci sia tra le due cose.
    Di causa ed effetto o di semplice "consecutio" casuale ?
    Difficile dare una risposta.

    Certo è che l'economia globale, di fatto, ha messo in soffitta le classiche guerre di conquista, avendo fatto comprendere che il guadagno che si può ottenere da una guerra (vinta) è comunque inferiore a quello che si può avere da una pace industriosa.
    Non mi pare una cosa da poco.

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    1. "Resta però da chiedersi che tipo di rapporto ci sia tra le due cose."

      È comunque certo che quel passato ha preceduto il nostro tempo influenzandolo, anzi preparandolo. Persino la tratta degli schiavi ha un suo senso. Tanti fenomeni storici hanno una certa ambivalenza e possono trovare una giustificazione anche se moralmente condannabili. Giustificazione nel senso che se sono avvenuti dovevano accadere e hanno avuto anche delle ricadute positive (cosa sarebbero gli USA senza la popolazione di colore - che costituisce comunque solo il 14% circa della popolazione americana). La Rivoluzione delle rivoluzioni, quella francese, fu una necessità, anche se fu un'oscena orgia di sangue (nessun monumento fu eretto in Francia a Robespierre e Saint-Just).
      Si capisce che non difendo la tratta degli schiavi e i massacri di settembre in Francia.

      Sì, le classiche guerre di conquista sono ormai inconcepibili. Ma la conquista di nuovi mercati, di nuovi sbocchi per i propri prodotti e per l'accaparramento delle risorse non è guerra anche questa? Con altri mezzi, meno cruenta, ma non meno crudele (chiedere ai Greci, anche ai disoccupati italiani). Il sapiens sembra essere un animale aggressivo per natura e l'aggressività sembra crescere col numero di sapiens e il restringersi degli spazi. Provate ad immaginare di ospitare nelle vostre case qualche decina di migranti (ci stanno, ci stanno coi letti a castello). Il papa ci consiglia l'accoglienza ... Ma scommetto (la testa) che di frizioni ce ne sarebbero (e potrebbe scapparci anche il morto).

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    2. "un animale aggressivo per natura"

      Piu' che aggressivo direi competitivo: quella che definiamo come aggressivita' tutto sommato e' un'eccezione, mentre e' la competizione che e' la norma, tanto da passare inosservata (nei blog, nello sport, nella guerra, nella scuola, nella cultura, nelle arti, nel gioco: ognuno cerca di superare e prevalere, sempre, la costante e' questa).
      Essendo senz'altro stata tale competitivita' il motore dell'evoluzione del nostro cervello e del linguaggio e della cultura, pensare di imbrigliarla e' velleitario: senza, dell'essere umano resta poco o nulla.

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    3. Si definisce come aggressivita' la competitivita' degli altri. ;)

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    4. Effettivamente il concetto di aggressività (innata o meno) si presta a qualche equivoco. Intanto è subito associato a qualcosa di negativo, magari il peccato originale, come se l'uomo tenda al male (per la sua natura corrotta, secondo i cristiani). Invece è semplicemente un potenziale che serva all'autoconservazione, in alcune specie (come forse l'uomo) più forte e anche distruttivo. Tanto che si è cercato di addomesticarlo con un comandamento divino (il che presuppone che il sapiens avesse una naturale o eccessiva inclinazione a uccidere).
      Un mondo senza competizione è impensabile, quasi inconcepibile - diceva per es. Mitscherlich (psichiatra, autore di "Germania senza lutto" - sull'incapacità dei Tedeschi di elaborare il lutto). In realtà siamo tutti in competizione anche se fingiamo camerateria e fratellanza. Però se pensiamo alle conseguenze della competività estrema (la storia insegna o no?) si possono sviluppare tecniche per mantenere lo spirito di competività a un basso livello.

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    5. << Però se pensiamo alle conseguenze della competività estrema (la storia insegna o no?) si possono sviluppare tecniche per mantenere lo spirito di competività a un basso livello. >>

      Come, per esempio, lo sport-spettacolo.
      Il quale probabilmente è l' "invenzione" più intelligente della cultura umana per incanalare la competitività nella sua forma meno aggressiva.
      Peccato che poi, almeno dalle parti nostre, l''aggressività dei tifosi più beceri si sfoghi malamente sugli spalti.
      Ma mi sembrano eccezioni marginali (e forse inevitabili) che non intaccano la valenza importantissima dello sport spettacolarizzato.

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    6. @ Diaz

      << Si definisce come aggressivita' la competitivita' degli altri. >>

      Ben detto.
      Sono passati i secoli, ma siamo sempre lì, a fare i distinguo con la trave e la pagliuzza.

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    7. "sport, il quale probabilmente è l' "invenzione" più intelligente della cultura umana per incanalare la competitività nella sua forma meno aggressiva."

      La competitivita' (e la sua esagerazione, l'aggressivita') negli esseri umani si manifesta peculiarmente nella cultura, nello scontro delle idee e loro reificazioni. Non ce ne accorgiamo perche' ci siamo immersi continuamente.
      Lo stiamo facendo anche adesso.

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    8. << Lo stiamo facendo anche adesso. >>

      Beh, sì, in un certo senso, però sempre con molto fair play.
      In fondo, ognuo di noi ha le sue idee, ma non per questo cerca di prevaricare sugli altri ospiti.

      Lo sport, invece, mi sembra proprio la sublimazione dell'aggressività praticata con mezzi leciti.
      Alla fine ci deve pur sempre essere un vincitore e uno sconfitto (ma non una vittima, per fortuna...).



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    9. Anche K. Lorenz considerava con molto favore la sublimazione dell'aggressività mediante lo sport. Mah, malgrado i Giochi Olimpici i Greci se le suonavano di santa ragione (e i partecipanti ai giochi erano molto scorretti). In epoca moderna lo sport può magari avere assunto questa funzione di surrogato delle guerre. In campo continuano a suonarsele di santa ragione, dopo aver cantato l'inno nazionale, ma certamente meglio una guerra in campo (e sugli spalti) che una vera guerra.

      Tuttavia oggi considero lo sport non più un buon surrogato delle guerre guerreggiate con milioni di morti, ma un fenomeno decadente, poco interessante (che noia il calcio) e che frutta un sacco di soldi ai brocchi in campo e ... alla FIFA, L'attuale scandalo della FIFA la dice lunga sullo stato dell'arte. Da giorni l'argomento tiene campo in TV e sui giornali - ma di calcio e sport nessuno parla! Pippo Blatter (Sepp per gli amici, come Pippo Ratzinger) è il personaggio del giorno (nel male stavolta), ma di calcio (Messi, Cristiano Ronaldo ecc.) nessuno parla. Poveri calciatori (be' mica tanto, anche loro sono papponi), e poveri tifosi, cornuti e mazziati e pure scemi.
      Praticate lo sport, non frequentate gli stadi.

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    10. << Praticate lo sport, non frequentate gli stadi. >>

      Caro Sergio, praticare uno sport è ovviamente la scelta migliore, ma anche seguirlo da spettatori può dare parecchio divertimento.
      Basta non esagerare con la partecipazione emotiva e, soprattutto, non usare lo sport per fare scommesse.

      Gli sport spettacolo possono convivere benissimo con il business (fare soldi non è peccato), ma certo non con la stupidità degli scommettitori, che - con la loro avidità - finiscono per distruggere il cuore stesso delllo sport, cioè la genuinità del risultato.

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  7. L'idea della morte nella società della tecnica è nuda. La scienza ha tolto tutte le strutture e sovrastrutture con cui in epoca premoderna quell'idea veniva accettata ed elaborata. L'uomo moderno è solo di fronte all'abisso del nulla cui è destinata l'esistenza individuale. Prima l'individuo era accompagnato alla morte all'interno della famiglia, nel senso di appartenenza ad una terra, a tradizioni, ad una religione che veniva vissuta con la fede. La tecnica lo lascia invece solo di fronte all'Abgrund, sradicato da ogni appartenenza, da ogni terra, da ogni focolare (Heimat). Leopardi allude a questa angoscia esistenziale con il termine noia che non va inteso nel senso che noi diamo a quella parola oggi. Al tempo di Leopardi non esisteva ancora il concetto psicologico di angoscia. Nella sua grande sensibilità il poeta ha saputo interpretare questo sentimento tipico della modernità nel suo primo manifestarsi. All'uomo moderno non resta altro che affidarsi alla potenza della tecnica nella speranza assurda che gli doni l'immortalità. Il post moderno consiste nella coscienza di questa inutilità della corsa alla continua crescita di potenza, alla massificazione degli individui e della vita, del consumismo fine a se stesso, della sovrappopolazione come svuotamento della persona ridotta a numero e replica. Ma la società della tecnica planetaria è ormai inarrestabile e si sta imponendo su tutta la Terra. Questo sentimento dell'abgrund in cui siamo sospesi, dal nulla della nostra provenienza al nulla della destinazione individuale, si accompagna oggi alla coscienza del destino collettivo di catastrofe cui siamo avviati con l'attuale società dei consumi senza limiti. I Jhadisti cercano, con i propri valori tra cui la loro accettazione premoderna della morte, di reagire al pericolo che incombe anche su di loro, la loro cultura e le loro tradizioni. Lo sradicamento è ormai planetario e il jhadismo è una reazione disperata.

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    1. << L'uomo moderno è solo di fronte all'abisso del nulla cui è destinata l'esistenza individuale. Prima l'individuo era accompagnato alla morte all'interno della famiglia, nel senso di appartenenza ad una terra, a tradizioni, ad una religione che veniva vissuta con la fede. >>

      Caro Agobit, in effetti la fede religiosa, in certi casi, aiuta, non posso negarlo.
      Ma a che prezzo ?
      Non solo per la necessaria rinuncia alla "ragione", ed alle tante altre cose piacevoli di questo mondo che la religione proibisce, ma anche, e direi soprattutto, per l'assoluta mancanza di certezze, non potendo mai, il fedele, essere del tutto sicuro di raggiungere l'agognato paradiso.
      Si rischia quindi (e sono certo che questa è stata la condizione di moltissimi fedeli soprattutto nel medio evo), di rinunciare alla vita di qua in cambio non della consolazione, ma bensì del terrore della vita di là.
      Non mi sembra un grande affare.

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    2. ..........................................................
      Venite, gente vuota, facciamola finita,
      voi preti che vendete a tutti un'altra vita,
      se c'è come voi dite un Dio nell'infinito
      guardatevi nel cuore, l'avete già tradito.
      E voi, materialisti, col vostro chiodo fisso,
      che Dio è morto, e l'uomo è solo in questo abisso,
      le verità cercate per terra da maiali,
      tenetevi le ghiande, lasciatemi le ali,
      tornate a casa, nani, levatevi davanti,
      per la mia rabbia enorme mi servono giganti.
      Ai dogmi e pregiudizi da sempre non abbocco,
      e al fin della licenza io non perdono e tocco.

      Francesco Guccini, "Cirano"

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    3. Bei versi, forti, sanguigni, com'è tipico di Guccini.
      Ma una volta esclusi i preti da una parte ed i materialisti dall'altra, che ci rimane ?
      A chi ci dovremmo rivolgere ?
      (Magari Guccini lo spiega meglio altrove, ma io non lo conosco abbastanza).

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    4. "All'uomo moderno non resta altro che affidarsi alla potenza della tecnica nella speranza assurda che gli doni l'immortalità."

      La volontà di potenza - che altri chiamano il titanismo dell'uomo - è nella nostra natura probabilmente. Chi può dire dove sono i limiti? Nessuno. Una volta era la Chiesa a dichiarare invalicabili certi limiti, perché posti da Dio e dalla natura (per quanto corrotta dal peccato originale ...), ma ormai essa non ha più nessuna autorità e quasi nessun potere (gliene resta ben poco).
      Ma la volontà di potenza tende davvero all'immortalità? Non direi, è semplice volontà di potenza che travolge ogni ostacolo.
      Gli antichi vedevano nella gloria una specie di eternità (e ancora un Leopardi ambiva alla gloria, un simulacro di eternità).
      Ora non ci resta nemmeno più questo simulacro, pendiamo sull'abisso, sappiamo (o sentiamo) che la morte è la fine della nostra individualità (e in un senso molto concreto la catastrofe massima, la nostra distruzione totale).
      Ma questa ormai da quasi tutti (persino da tanti cattolici) accettata fine del mondo (la nostra morte è la nostra fine del mondo) ha qualcosa di negativo che non può piacere (forse dovrei dire: che "a me" non piace, mi lascia insoddisfatto, forse per la mia educazione religiosa e cattolica che per quanto respinta fin da ragazzo con la ragione non ho ancora del tutto vinta.
      Ricordiamoci che la concezione della vita cristiana era di rinuncia al mondo (le pompe del demonio) che del resto faceva schifo (vedi il De contemptu mundi di Innocenzo III). Questo mondo era una "valle di lacrime" sulla quale si implorava il conforto della Vergine). L'unica consolazione, almeno per la massa, era la vita futura in paradiso. Questa visione beatifica e in fondo infantile si è volatilizzata o sta per volatilizzarsi a livello planetario - grazie ai piaceri che la vita, questa vita, può concedere. Il piacere è stato in passato il privilegio di pochi, oggi invece è alla portata di tutti e lo preferiamo a ipotetici paradisi. Persino la Chiesa è costretta ad ammettere che è possibile una vita sana e bella quaggiù.

      Nel tuo discorso qui sopra che - ripeto - mi piace in gran parte manca però una prospettiva.
      Forse si potrà allungare la vita in modo significativo (era persino il sogno di un prete, don Verzé), ma l'immortalità individuale non pare possibile. La morte - che non piace a nessun giovane o anche anziano in buona salute - è certa. Noi cerchiamo di esorcizzarla, di rimuoverla, ma siamo confrontati con essa continuamente. Si può rimuoverla anche tuffandosi nel lavoro o rincorrendo il successo e la gloria. Il lavoro - naturalmente un lavoro decente e magari anche appassionante - è la migliore medicina ai nostri mali spirituali (uso malvolentieri questa parola, spirituali, che in effetti non fa parte del mio vocabolario).
      M. Hack ha lavorato fino alla fine ed era in buona salute mentale. Ma era M. Hack. "Chi ha scienza e arte, ha già (= non ha bisogno di) una religione." (Goethe, agnostico).

      Il mio problema (o la mia domanda, credo anche di altri) é: come accettare l'idea della nostra finitudine senza amarezza e rassegnazione?
      Dacci una prospettiva o dei pensieri che ci sollevino (dalla nostra miseria). Ci sono cose esaltanti, fenomeni straordinari, uomini ammirevoli. Forse un'idea guida potrebbe essere quella di fare della Terra un paradiso, il paradiso terreste appunto - che non è mai esistito ma si potrebbe realizzare finalmente.
      C'è stato chi ha creduto che grazie al comunismo l'uomo avrebbe vinto la paura della morte (era un amico di Sartre, non un coglione qualsiasi, non ricordo adesso il nome). Oggi ci appare puerile un'idea simile, ridicola. Eppure questa "fede" nel comunismo ha aiutato molti a vivere.
      Al posto della fede abbiamo ora la scienza che però non riesce a parlare al cuore della moltitudine (non ancora forse).
      Facce felici, Agobit, tu che sei scienziato: dicci tu una parola di vita eterna che ci rallegri.


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    5. Heimat è la patria, il paese del cuore, anche la patria di adozione, insomma dove stiamo bene. Il termine deriva da Heim, una di quelle parole difficili da tradurre, tipiche di una lingua. Heim non è solo la casa, ma il luogo in cui mi sento davvero bene (vedi anche la locuzione "daheim", a casa, che non è la stessa cosa di zuhause che significa anche a casa.
      Il focolare è piuttosto Herd, in senso proprio e figurato.

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    6. *Ma una volta esclusi i preti da una parte ed i materialisti dall'altra, che ci rimane ? A chi ci dovremmo rivolgere ?"

      Appunto, non si sa, né lo dice altrove. Però sono versi simpatici: a Cirano-Guccini sembrano andare stretti gli uni (i preti) e gli altri (i materialisti col chiodo fisso). Ma il fatto è che Cirano è innamorato della sua Roxana e di certi discorsi (Dio c'è o non c'è?) non sa che farsene. Però un po' più sotto scrive pure:

      "Dev'esserci, lo sento, un posto in terra o in cielo,
      dove non soffriremo e tutto sarà giusto."

      Ovviamente è solo un wishful thinking, ma se aiuta a vivere perché no?

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    7. "L'idea della morte nella società della tecnica è nuda"

      Mah non ne sarei troppo sicuro, io non vedo tutta questa abissale differenza fra l'interpretazione del mondo data dalla religione e quella data dalla scienza, se non nel fatto che la prima e' calcificata in dogma millenario, mentre la seconda il dogma lo mette solo nel metodo di ricerca mentre tutto il resto lo considera rivedibile (per adesso!).
      Il punto e' che il rapidissimo evolversi delle conoscenze ha prodotto il "fork" delle due interpretazioni, religiosa e scientifica,, creando il vuoto in questione nello spazio dedicato al problema della morte, tradizionalmente appannaggio della religione tradizionale.
      Ma non c'e' alcun motivo per cui non si costruisca una narrazione adeguata al nuovo contesto conoscitivo, in fin dei conti la stessa ragion sociale di questo blog riconosce ad esempio la permanenza del genotipo di una popolazione, e' una forma di vita eterna anche quella.
      Insomma non darei troppo peso alle escatologie spaventevoli e terrificanti dei filosofi della "tennica", in fin dei conti i fanatici della scienza e della tecnica che conosco il problema della morte lo vivono benissimo, ci sara' un motivo. Ad essere terrorizzati, semmai, sono tutti quei personaggi che cercano risposte nei fiori di bach, nel veganesimo o qualsiasi altra dieta, o nelle religioni new age: gli ossessionati, che finiscono per vivere male e rovinarsi la salute fisica e mentale nel tentativo di salvarsi, sono loro.

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    8. "Il mio problema (o la mia domanda, credo anche di altri) é: come accettare l'idea della nostra finitudine senza amarezza e rassegnazione? "

      Sinceramente lo vedo come problema solo nel caso che la vita che si sta facendo faccia davvero schifo: ma se da un lato con la fine viene meno la possibilita' di recupero (dev'essere per questo stesso motivo che c'e' la dipendenza da gioco d'azzardo), dall'altro viene meno la sofferenza. QUindi in ogni caso va bene lo stesso.

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    9. << Il mio problema (o la mia domanda, credo anche di altri) é: come accettare l'idea della nostra finitudine senza amarezza e rassegnazione? >>

      Gran bella domanda, alla quale provo a dare la mia (modesta) risposta: dobbiamo accettare la rassegnazione, visto che non ci possiamo fare nulla, ed evitare invece l'amarezza, con una vita piena di interessi intelligenti.

      Attenzione, qui il termine intelligente non è usato in senso oggettivamente elitario (sono intelligente se mi appassiono agli scacchi, mentre sono un poveretto se mi accontento della briscola), ma in senso soggettivo: sono intelligenti tutte quelle attività che mi riempiono la vita dandomi più di quello che mi tolgono (nulla è gratis, anche in questo campo).

      Pare ovvio ma non lo è: basta vedere come passano malamente il tempo troppe persone.

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  8. Concordo con te, caro Lumen, non si può tornare indietro. Però la sfida rimane davanti a noi, la strada per uscirne è sconosciuta.
    Su Leopardi aggiungo una precisazione che ha la sua importanza, più che il termine noia lui predilige il sostantivo "tedio".

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    1. << O greggia mia, nè di ciò sol mi lagno.
      Se tu parlar sapessi, io chiederei:
      Dimmi: perchè giacendo
      A bell'agio, ozioso,
      S'appaga ogni animale;
      Me, s'io giaccio in riposo, il tedio assale? >>

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  9. Per Sergio
    Più che la vita eterna ti posso dare una risposta eterna: accettare ciò che siamo, compresa la nostra finitudine

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    1. E cosa siamo? Poco più di niente, un aggregato di atomi e molecole destinate a separarsi di nuovo? "Ich gebe der Erde die Atome wieder", dice un morente in una tragedia di Schiller: che verso prosaico.
      Senza illusioni la vita è insopportabile, diceva Giacomino. O ci vuole un progetto degno di questo nome. Quelli del CERN si esaltano alle loro scoperte - che però lasciano indifferenti e perplessi i restanti 7 miliardi virgola qualcosa (che pur gli finanziano il loro hobby).
      Ma la vita è un dono meraviglioso o una fregatura? Per tanti, troppi, è stata ed è tuttora una fregatura. Si potrebbe però "scendere" anzitempo. Ma pochi scendono, chissà perché.
      "O natura o natura, perché non dài quel che prometti allor, perché di tanto inganni i figli tuoi?" Anche Giacomino, pur così intelligente, protestava.
      Vengo proprio ora da un funerale: le parole del prete suonavano così strane alle mie orecchie, davvero inservibili: i discepoli di Emmaus, Dio, la vita eterna. Cosa ci può aiutare allora? Sì, la bellezza, l'amore, la scienza, d'accordo. Anche il lavoro, quello utile e non massacrante o umiliante, procura soddisfazione.
      Però scendiamo nella tomba senza aver saputo cosa è il tutto, il suo scopo. E la terra che gira, continua a girare senza di noi.

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    2. Quelli del Cern non si esaltano delle loro scoperte, si esaltano dell'essere i primi nel loro ambito di competizione. Per i "primi" la vita e' un dono meraviglioso, per tutti gli altri, che sono molti di piu', una fregatura.
      Per quanto riguarda la mia esperienza ho visto che chi crede nella vita eterna non di rado e' ossessionato dalla morte piu' di chi non ci crede, e spesso muore peggio.

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  10. Cari amici, è ovvio che la vita senza qualche obbiettivo da raggiungere è priva di senso.
    Ma la scelta degli obbiettivi dipende anche da noi.

    Così, per esempio, c'è una enorme differenza tra chi si pone come unico scopo nella vita quello di primeggiare a tutti i costi, andando con ciò incontro a parecchi stress e delusioni.
    E chi invece, conscio dei propri limiti, si accontenta di porsi degli obbiettivi intermedi, del tutto ragionevoli ed accessibili, e gioire quindi del loro raggiungimento.

    Il primo, così a occhio, mi sembra quello più schiavo (inconsapevole) del piccolo gene egoista; il secondo, meno.
    Forse la differenza è tutta qui.

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    1. E se il sapiens fosse davvero un "Irrläufer der Evolution" (Köstler)? Un prodotto fallimentare dell'evoluzione. Dice don Giulio-Nanni Moretti in "La messa è finita" di ben 28 anni fa: "Io credo che siamo fatti per essere felici." E invece, dice don Giulio-Moretti, ce la mettiamo tutta per farci del male ("Facciamoci del male.")
      Se fossimo felici o almeno contenti non staremmo a filosofare sul senso dell'esistenza (avete già visto due innamorati pensierosi e tristi perché non sanno che senso abbia la loro vita?).
      Siamo "gettati" nell'esistenza (la Geworfenheit) senza essere richiesti del nostro parere (ma del resto un parere non potevano esprimerlo non esistendo!). Ma i nostri genitori desideravanto tanto un cucciolo grazioso simile a loro (da piccoli!) - si era sempre fatto così, tutti facevano così, e non sono così graziosi i cuccioli? E così eccoci qua a strologare, a dire fesserie, a non capirci quasi niente - però ogni tanto un piacerino ci fa sperare in meglio (e allunga l'esistenza - come quelle telefonate idiote di una certa pubblicità di vent'anni fa).
      "Che sarà mai quel piacere del budellino teso?" (Marco Aurelio).

      O se invece più che prodotti fallimentari siamo stadi intermedi dell'evoluzione con qualche difetto soltanto? Però accidenti quanti guai causano questi piccoli difetti.

      Al CERN hanno avuto orgasmi da capogiro per le loro scoperte (grazie ai nostri soldi). La materia oscura, l'energia oscura ecc. ecc. Aridateci i soldi o fateci godere anche noi, brutti stronzi.
      Papa Francesco fa ridere, e con lui gli atei devoti, con i testa il Primate Giuliano Ferrara.
      Ma almeno tu, Agobit, potresti risollevarci il morale (ma me raccomando, non in filosofese - parla come mangi).

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