Il post di oggi è dedicato a Randall Collins, un sociologo americano specializzato nell'analisi della violenza umana. Tra le sue opere più importanti tradotte in italiano, possiamo citare “Violenza – una analisi sociologica”.
Secondo Collins il conflitto è socialmente inevitabile a causa della distribuzione ineguale del potere, e distingue tre ambiti principali di questa disparita: il mondo del lavoro (in cui la società si divide in classi); i ceti sociali (in cui le persone si dividono per età, sesso, appartenenza etnica, livello culturale) e l'arena politica (in cui i partiti e i movimenti si contendono il potere istituzionale).
Per fortuna, sostiene Collins, gli uomini non sono naturalmente violenti, pronti ad aggredirsi al minimo pretesto. Questa idea è un “mito” alimentato dal cinema, dalla televisione e dai romanzi.
In realtà l’uomo subisce una grande tensione emotiva tutte le volte che è in procinto di aggredire o di essere aggredito e quindi, affinché la violenza si verifichi in modo effettivo e (potenzialmente) letale, devono verificarsi alcuni particolari presupposti.
Il testo che segue è stato tratto dal web, con l'aiuto di Copilot.
LUMEN
<< La violenza è spesso percepita come un’espressione primitiva dell’essere umano, una pulsione che emerge in condizioni di stress, rabbia o conflitto. Tuttavia, il sociologo americano Randall Collins ci invita a ribaltare questa visione. Nella sua analisi microsociologica, la violenza non è affatto spontanea: è rara, difficile da attuare e, nella maggior parte dei casi, inefficace.
Collins sostiene che gli esseri umani non sono naturalmente portati alla violenza, ma che essa si manifesta solo quando si creano condizioni specifiche che permettono di superare una forte barriera emotiva.
Questa barriera, che potremmo definire come una sorta di “tensione da confronto”, è ciò che impedisce alla maggior parte delle persone di agire violentemente, anche quando provocate. La paura, l’ansia, l’incertezza e il senso di colpa sono emozioni che bloccano l’aggressione diretta.
Per questo motivo, la violenza fisica è spesso goffa, esitante, e si risolve in gesti maldestri o in minacce verbali. Solo in alcune situazioni — quando l’ambiente, il contesto sociale o la dinamica interpersonale lo permettono — la violenza diventa “competente”, cioè efficace e portata a termine.
Uno degli aspetti più affascinanti della teoria di Collins è la sua attenzione agli schemi situazionali che facilitano la violenza. Tra questi, spicca il cosiddetto “effetto cecchino”, una dinamica in cui l’aggressore si concentra esclusivamente sull’aspetto tecnico dell’azione: la mira, la postura, il respiro, la gestione dell’arma.
In questo stato, la vittima non è più percepita come un essere umano, ma come un bersaglio astratto. L’atto violento si trasforma in un esercizio di precisione, una performance tecnica che distacca l’aggressore dalle conseguenze morali del suo gesto. È una forma estrema di deumanizzazione, favorita da contesti militari, paramilitari o tecnologici.
La guerra moderna offre numerosi esempi di questo schema. L’uso di droni, missili teleguidati e bombardamenti a distanza permette di colpire senza vedere direttamente la vittima. La distanza fisica diventa distanza emotiva: non c’è contatto visivo, non c’è interazione, non c’è riconoscimento dell’altro.
Collins sottolinea che durante la Seconda Guerra Mondiale, solo una minoranza dei soldati americani sparava con l’intento reale di uccidere. La vicinanza al nemico rendeva l’atto troppo carico di tensione. La violenza, per essere attuata, ha bisogno di essere “raffreddata”.
Ma non è solo la distanza a facilitare l’aggressione. Collins identifica altri schemi che riducono la barriera emotiva. Uno di questi è l’attacco ai più deboli: quando l’aggressore percepisce un vantaggio netto, il rischio di resistenza o ritorsione si abbassa, e la violenza diventa più probabile. È il caso del bullismo, della violenza domestica, delle aggressioni a persone isolate. In questi contesti, l’asimmetria di potere crea le condizioni favorevoli all’azione violenta.
Un altro schema è la ritualizzazione della violenza. In alcune situazioni — come le risse tra tifosi, i duelli tra adolescenti o le sfide tra bande — l’aggressione segue un copione, un codice non scritto che legittima l’atto. La presenza del pubblico, l’attesa dello scontro, la pressione sociale contribuiscono a creare un clima in cui la violenza è non solo accettata, ma attesa. Collins parla di “duelli ritualizzati”, dove l’interazione violenta è quasi teatrale, e dove l’obiettivo non è tanto ferire, quanto affermare il proprio status.
Anche l’inganno gioca un ruolo cruciale. L’aggressione a sorpresa, l’imboscata, il tradimento permettono di evitare il confronto diretto. L’aggressore colpisce quando la vittima è impreparata, riducendo la tensione emotiva e aumentando l’efficacia dell’azione. È una strategia che si ritrova tanto nei conflitti armati quanto nelle dinamiche interpersonali.
Infine, Collins analizza il ruolo della desensibilizzazione. Attraverso l’addestramento militare, la propaganda, i videogiochi violenti o il linguaggio tecnico, l’individuo viene “allenato” a ignorare l’impatto emotivo della violenza. Frasi come “neutralizzare il bersaglio” o “eliminare la minaccia” sostituiscono il riconoscimento della sofferenza altrui. La violenza diventa routine, procedura, operazione.
In sintesi, Randall Collins ci offre una visione radicalmente nuova della violenza: non come impulso, ma come interazione sociale complessa, condizionata da fattori ambientali, psicologici e culturali.
La sua analisi ci costringe a ripensare il modo in cui interpretiamo il conflitto, l’aggressività e persino la guerra. In un mondo in cui la violenza è sempre più mediata da tecnologie, rituali e narrazioni, comprendere questi meccanismi diventa essenziale per decostruirli e, forse, per disinnescarli. >>
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