IL NUCLEARE IN ITALIA dI Eugenio Saraceno
<< La notizia è ancora fresca, il programma nucleare italiano è sospeso.
Tralascio le analisi riguardanti l’opportunità di sospendere una legge sulla quale è stato indetto un referendum e che in tal caso verrebbe a cadere e le polemiche sulla possibilità che tale sospensione sia funzionale allo svuotamento di alcuni referendum su leggi di particolare interesse per il governo che avrebbero potuto raggiungere il quorum trainati dalla pubblicità sul quesito nucleare e preferisco focalizzare l’attenzione sull’aspetto riguardante la politica energetica.
E’noto che l’attuale governo, pur non avendo inserito esplicitamente la rinascita del nucleare nel proprio programma, inserì le norme appena sospese tra le prime leggi promulgate dopo aver vinto le elezioni.
Pertanto la compagine governativa è stata definita “nuclearista”. Il precedente programma nucleare italiano, pur avendo raggiunto rapidamente degli obbiettivi notevoli per l’epoca in termini di potenza installata e di avanzamento tecnologico, rallentò e si arenò già prima che il referendum dell’87 sancisse la moratoria per gli impianti in costruzione (Montalto di Castro - VT). Il referendum non imponeva la chiusura degli impianti esistenti ma questi furono comunque fermati poco dopo per decisione del governo, compreso l’allora recentissimo impianto di Caorso da 800 MW entrato in esercizio solo nel 1980.
Le ragioni per tale solerzia del governo di allora nell’assecondare l’opinione pubblica sul tema dell’uscita dal nucleare ben oltre gli effetti del quesito referendario, a posteriori, sono comprensibili.
A parte i motivi di consenso elettorale, a mio avviso, il governo era consapevole che il programma nucleare italiano non poteva proseguire perché mancava di alcuni aspetti fondamentali presenti in altri paesi, come ad esempio la Francia, che ancor oggi consentono di mantenere salda una strategia energetica basata sull’energia nucleare:
1) Mancanza di una filiera nazionale o almeno di una scelta chiara su una filiera commercialmente disponibile: In Italia, a parte alcune aziende subappaltatrici e di supporto, non è mai esistita una filiera nazionale nucleare. Il vecchio programma nucleare italiano, contrariamente ad altri paesi, prevedeva di sperimentare più filiere disponibili sul mercato.
I quattro impianti erano tutti di tecnologie diverse e quindi con procedure , operazioni, manutenzioni e gestioni specifiche, non standardizzabili e dunque portatrici di diseconomie notevoli. I paesi che dispongono di una o più filiere nazionali hanno minori costi di gestione ed inoltre sviluppano una larga piattaforma di imprese domestiche legate al programma nucleare.
Maggiore è il numero di operatori economici interessati allo sviluppo di un programma nucleare e maggiormente tale interesse si riverbera sui media che assumono posizioni tali da favorire l’immagine dell’industria nucleare presso l’opinione pubblica. In mancanza di tale convergenza di interessi un programma nucleare è vulnerabile e molto soggetto alle vicende elettorali.
2) Mancanza di un programma atomico militare: La visione che aveva fatto nascere il primo programma nucleare italiano era completa, nel senso che ricalcava l’esperienza dei grandi paesi che nel dopoguerra si impegnarono in programmi analoghi; si prevedeva infatti di portare avanti anche un programma nucleare militare, così come agirono la maggioranza dei paesi allora impegnati nello sviluppo del nucleare, sia civile che militare.
In primis le due superpotenze, ma anche l’Inghilterra che sviluppava il suo arsenale e fu anche uno dei primi paesi ad avere una filiera civile. Nel dopoguerra, tra il 1957 ed il 1958, si ipotizzò un programma atomico militare che impegnasse congiuntamente Francia, Italia e Germania.
Tale programma fu interrotto nel 1958 per scelta del nuovo presidente francese De Gaulle, che preferì portarlo avanti per conto proprio mentre Italia e Germania in quanto paesi sconfitti non avrebbero potuto procedere autonomamente. Ciò lasciò il programma nucleare italiano menomato del supporto militare che avrebbe potuto creare condizioni molto favorevoli in quanto le scorie dei reattori civili erano una fonte ben remunerata di plutonio per il programma militare. Supporto che invece vi fu in Francia e favorì l’ampio sviluppo del settore atomico civile, sgravato della gestione delle scorie che passavano in carico ai militari e venivano anche pagate.
3) Forte influenza dei competitori dell’industria elettronucleare: L’Italia, anche per la sua posizione strategica nel Mediterraneo, nel dopoguerra sviluppò in modo abnorme l’industria del downstream petrolifero. I raffinatori disponevano di capacità in eccesso e raffinavano anche per l’esportazione. Questa attività aveva come sottoprodotto molto olio pesante, poco richiesto dal mercato, ma che poteva essere bruciato per la produzione di energia elettrica. Ovviamente l’ampliamento massivo della produzione nucleare poteva essere contrastato da tali gruppi di interesse.
4) Mancata creazione di attività relative al riprocessamento delle scorie. Tale attività, che i maggiori paesi dotati di energia atomica (USA, Francia, Inghilterra, Russia, Giappone) svolgono autonomamente e per conto terzi in propri impianti non era prevista in Italia, ciò introduceva costi aggiuntivi ed una dipendenza da aziende e istituzioni straniere nella delicata fase della gestione delle scorie.
L’attuale rinuncia alle attività di sviluppo del nuovo programma nucleare ricalcano in qualche modo quella passata vicenda, con alcuni elementi nuovi. Ugualmente il nuovo programma nasceva già indebolito dalla mancanza di una filiera nazionale e dalla presenza di un parallelo programma militare.
Entrambe in ogni caso sarebbero oggi inattuali per i ritardi tecnologici pluridecennali accumulati sui temi della progettazione di impianti nucleari e per il panorama internazionale che è ben diverso da quello del dopoguerra in cui era ancora plausibile ma non scontato che l’Italia, pur sotto la tutela della Francia, potesse avere un arsenale nucleare.
Oggi tale eventualità suonerebbe come una pericolosa sfida. Parimenti le attività di gestione delle scorie non erano state ancora chiarite ed ai competitori tradizionali dell’industria elettronucleare come i gestori degli impianti termoelettrici a gas naturale, si affiancano i gestori degli impianti ad energie rinnovabili i quali hanno buone argomentazioni a convincere l’opinione pubblica che se ingenti investimenti devono essere impiegati sul settore nucleare, sarebbe meglio impiegarli sulle rinnovabili che hanno minore complessità nella gestione del rischio e non producono scorie o situazioni pericolose.
Al contrario della filiera nucleare, su cui ormai si è accumulato un ritardo irrecuperabile, le filiere della green economy sono ancora relativamente giovani e la possibilità di creazione di filiere nazionali non è da escludere.
E’apparso evidente che l’atteggiamento del governo sul tema del nuovo programma nucleare si sia basato più su parole che su fatti, superata la fase iniziale di attivismo, complici probabilmente le difficoltà di bilancio, si era raffreddato molto. La lentezza con cui le varie normative ed istituzioni previste dalla legislazione venivano attuate strideva con la rapidità e la compattezza con cui solitamente lo stesso governo tratta i temi che sono considerati vitali per gli interessi del premier, quali la giustizia o le comunicazioni.
A livello di enti locali, che pure sarebbero coinvolti come attori primari nel processo autorizzativo, si registrava la puntuale defezione di molti governatori regionali in quota ai partiti della maggioranza, nessuno dei quali si dichiarava contrario al nucleare purché, per varie ragioni, non basato nella regione di propria competenza.
Le aziende di produzione dell’energia elettrica erano state designate quali attori principali che avrebbero attuato operativamente il programma, ad esse il governo avrebbe dovuto offrire un quadro normativo chiaro, tale che detti operatori potessero coinvolgere risorse tecnologiche e finanziarie. Pertanto i maggiori player avevano già trovato dei partner internazionali autorevoli come EDF accordatasi con ENEL.
Tuttavia le risorse finanziarie non potevano essere impiegate in mancanza di tasselli chiave ancora mancanti nella normativa e di indirizzi da parte della costituenda Agenzia. Ma ancor più i finanziatori avrebbero voluto garanzie ed impegni onerosi che il Governo si è ben guardato dal prendere. Già il Ministro Tremonti si era espresso contro l’impiego di ingenti risorse pubbliche per il programma nucleare.
Ma è evidente che dal punto di vista degli investitori privati interessati alla realizzazione delle centrali è fondamentale proprio l’impegno di risorse pubbliche mediante la concessione di privilegi, garanzie ed incentivi che riducano il profilo di rischio molto alto degli investimenti nucleari. Profilo di rischio dovuto alla lunghezza dei tempi di ritorno dell’investimento e dalla notevole entità dello stesso, distribuita principalmente nella prima fase del progetto e con un lungo periodo (anche oltre 15 anni) tra l’inizio dell’investimento ed i primi ritorni economici.
Questo tipo di problematica ha ridotto fortemente lo sviluppo del nucleare in tutti i paesi che non prevedono sussidi pubblici agli investitori privati del settore elettronucleare. E’noto, ad esempio, che dal 1977, anno in cui gli Stati Uniti ritirarono gli incentivi agli impianti atomici, nessun nuovo reattore è stato costruito in quel paese. La precedente politica di sussidi e supporto da parte del programma atomico militare avevano consentito fino ad allora di installare oltre 100 reattori.
Per le ragioni sopra espresse il programma atomico italiano era sostanzialmente fermo quando sono intervenuti due avvenimenti che hanno fornito al governo stesso una comoda exit strategy.Il più evidente è la tragedia di Fukushima. Questa ha avuto ripercussioni sui programmi nucleari più deboli perché mancanti delle 4 caratteristiche sopra descritte.
La Germania ne ha subito approfittato per abrogare la normativa che prolungava la vita degli impianti più datati. Successivamente si ferma anche il programma italiano. Nello stesso Giappone, dove è ben presente una filiera tecnologica, il ritrattamento delle scorie ed una serie di vincoli che rendono deboli le alternative alla produzione elettronucleare (ad es. la difficoltà ad approvvigionarsi di gas naturale), non si è arrivati ad una così profonda revisione.
Il secondo avvenimento è il grave vulnus inflitto alla sicurezza energetica italiana con l’intervento armato internazionale contro la Libia, intervento che renderà tale paese, da cui provenivano notevoli percentuali del fabbisogno italiano di petrolio e gas, incapace per un tempo indefinito di onorare i propri contratti di fornitura.
Uno dei maggiori protagonisti di tale iniziativa bellica è senz’altro la Francia. L’ipotesi che la politica attuata verso la Libia sia dettata da motivi meramente umanitari è risibile. La Francia, con l’importante appoggio dell’Inghilterra ed il supporto un po’ tiepido ma non certo ostile degli USA ha utilizzato l’opzione militare contro un paese in cui un vicino ed alleato ha importanti interessi energetici. La Francia è anche uno dei maggiori fornitori di energia elettrica per l’Italia tramite le numerose linee elettriche transfrontaliere. La filiera francese EPR è inoltre la candidata più accreditata per il nuovo programma nucleare italiano.
La mia interpretazione è che la mossa internazionale contro la Libia fosse, oltre un tentativo di controllarne le risorse petrolifere, anche un messaggio minaccioso volto a far capire all’Italia che è molto vulnerabile in merito alla sicurezza energetica e che farebbe meglio ad accelerare il proprio programma nucleare, magari facendo una scelta mirata sull’EPR. L’atteggiamento ostile della Francia si è palesato anche nella vicenda dei profughi in fuga dagli stessi eventi sociopolitici.
L’Italia ha invece risposto abbandonando l’ex amico libico Gheddafi, con il quale aveva stipulato un patto di non aggressione, partecipando alla missione internazionale (tentando di non essere estromessa completamente dai propri interessi energetici ed economici) e bloccando il programma nucleare, cosa che può danneggiare molto anche la Francia ed altri potenziali fornitori.
Le recenti “rivelazioni” di Wikileaks (che rivelazioni non sono per chi si occupa del settore) hanno messo in evidenza come la politica energetica italiana, basata su una forte dipendenza dagli idrocarburi provenienti da paesi non graditi o considerati nemici da Washington, come la Russia, la Libia e l’Iran, preoccupi gli Stati Uniti e molti alleati. Il timore è ovviamente che l’Italia sia testa di ponte per gli interessi di questi paesi , usi ad utilizzare la leva energetica come arma politica, e diffonda in Europa questo ‘contagio’.
Pesante palesamento di questo timore si ebbe nell’estate 2008 quando il mancato appoggio di molti paesi europei alla Georgia contro la Russia per i fatti dell’Ossezia, supporto che non mancò da parte di Washington, fecero intravedere a quest’ultima la concreta possibilità della Russia di utilizzare ’arma energetica per rendere meno compatto il fronte degli alleati europei, che nella visione di Washington devono privilegiare gli interessi americani anche a detrimento dei propri.
Per ragioni politiche contingenti questo atteggiamento destabilizzante degli equilibri energetici europei , nei cablo di WikiLeaks è attribuito a Berlusconi, ma è noto che i rapporti di ENI con i russi di Gazprom, con gli iraniani di NIOC ed i libici è ben precedente alla carriera politica di questi, che semmai vi ha sommato altri interessi personali.
La preoccupazione per gli alleati è quindi la ‘politica’ dell’ENI ed è proprio l’ENI che deve essere indebolita per poter evitare il rischio che paesi potenziali antagonisti degli USA aumentino la propria influenza in Europa usando l’arma energetica. In Libia gli interessi ENI vengono fortemente scossi.
Pertanto se l’Italia, nella visione dei suoi principali alleati, deve ridurre la dipendenza energetica ed economica dai paesi ‘non graditi’ il nuovo programma nucleare italiano doveva essere intrapreso per compensare i minori flussi energetici ‘sgraditi’ a Washington. Tra l’altro tale programma, appunto per la mancanza di una filiera completa nazionale italiana, avrebbe interessato come fornitori, importanti settori industriali di alcuni nostri alleati.
E’realistica la possibilità che, come nel precedente programma nucleare, l’Italia non decidesse di focalizzarsi su una filiera opportunamente selezionata in base a criteri tecnici ed economici, ma facesse contenti un po’ tutti i principali fornitori, francesi, americani, inglesi assegnando appalti un po’ a tutti per non scontentare nessuno. Un flusso di denaro dirottato dalle casse delle aziende energetiche di russi o libici verso le multinazionali dell’energia atomica.
Il programma nucleare del centrodestra doveva essere dunque un rassicurante impegno verso gli alleati. Anche il centrosinistra, pur contrario al nucleare, aveva appoggiato iniziative energetiche volte a rassicurare gli alleati, si tratta dei numerosi progetti di rigasificatori, che consentirebbero di ridurre o diluire le importazioni di gas dai soliti Russia e Libia.
Ma entrambi i programmi sembrano essere in una fase morta. Di una dozzina dei previsti rigasificatori uno solo è stato effettivamente realizzato.
Anche i rigasificatori, aprendo il mercato ad una più effettiva concorrenza, così come il programma nucleare (che ridurrebbe il consumo di gas per il settore termoelettrico) cozzano con gli interessi dell’ENI, maggior importatore di gas in Italia. Data la profonda influenza di ENI sulla politica italiana lo stop del programma nucleare potrebbe essere una delle contromosse dell’ENI?
La partita è ancora in corso. >>
EUGENIO SARACENO
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